Foto rubate e diritto d’autore: storica sentenza condanna Facebook

Al fotoreporter Gianni Minischetti riconosciuti 126 mila euro di risarcimento, per le immagini di Oriana Fallaci a New York

Speciale per Senza Bavaglio
Eugenio Gallavotti
Milano, 7 luglio 2025

Dopo oltre vent’anni di soprusi digitali, la sentenza del tribunale di Torino contro Meta potrebbe segnare una svolta epocale. Con 126 mila euro di risarcimento riconosciuti al reporter Gianni Minischetti – che nel ’91 fotografò Oriana Fallaci a New York – la giustizia italiana ha finalmente stabilito un principio sacrosanto: i diritti d’autore valgono anche nel mondo digitale; le piattaforme non possono più far finta di nulla.

Per anni, quegli scatti sono stati duplicati, trasformati in meme e slogan da tastiera, rilanciati da pagine Facebook senza alcuna autorizzazione, in spregio alla persona ritratta e a chi l’ha immortalata.

Ma questa è molto più di una causa per violazione del copyright. È l’occasione per aprire gli occhi su una dolorosa stagione di abusi che le piattaforme social, da Facebook a TikTok, hanno perpetrato indisturbate, basandosi sull’equivoco dell’hosting passivo (che c’entriamo noi? È la gente che ripubblica…). Un alibi comodo che ha permesso di arricchirsi miliardo dopo miliardo sfruttando contenuti prodotti da altri, alimentando traffico grazie a disinformazione, fake news, testi rubati e immagini saccheggiate, svilendo e decimando la professione giornalistica.

Già nel 2018 lo scandalo Cambridge Analytica aveva mostrato il volto oscuro dei social: una macchina globale di sorveglianza e manipolazione che, attraverso i dati di milioni di utenti, aveva influenzato il referendum sulla Brexit e le elezioni americane.

Nel documentario The Social Dilemma (Netflix, 2020), ex dirigenti di Facebook, Google e Twitter confessavano pubblicamente il peccato originale: le fake news e i contenuti d’odio generano più clic, più tempo online e perciò più profitti.

Il risultato? Una strategia algoritmica che premia l’estremo, che danneggia l’informazione verificata e chi la produce. E che crea un superpotere al di sopra delle istituzioni democratiche, incapaci persino di far pagare le tasse alle aziende più ricche della storia del capitalismo (chi ricorda il film Don’t Look Up, 2021, dove la presidente degli Stati Uniti, interpretata da Meryl Streep, è in balìa di un boss Big Tech?).

Che la sentenza di Torino risuoni come un appello urgente anche per l’Ordine Nazionale dei Giornalisti e per la Federazione Nazionale della Stampa. Non è solo una vittoria per Minischetti, ma un precedente legale da cavalcare, di concerto con gli organismi di categoria europei, coinvolgendo gli editori, per rimettere ordine in un mercato digitale che ha violato sistematicamente i diritti della professione giornalistica.

Gli articoli copiati e incollati senza un centesimo di compenso per l’autore: non è mai troppo tardi per dire basta. Che le istituzioni promuovano un osservatorio permanente sulle violazioni digitali del diritto d’autore e istituiscano una task force legale per tutelare chi produce contenuti originali.

La pronuncia dei giudici torinesi è netta: Meta è responsabile anche se i contenuti sono caricati dagli utenti. Non può più nascondersi dietro il ruolo tecnico di “contenitore neutrale”. Deve pagare.

La decisione del tribunale di Torino non è solo giurisprudenza. È la fine di una narrazione tossica dove tutto è “libero” in Rete. No: libertà digitale non significa anarchia, ma rispetto delle regole, dei diritti, del lavoro.

È il momento di restituire dignità al giornalismo, alla fotografia, alla scrittura. Ogni contenuto ha un autore. Ogni autore ha un diritto. Ogni diritto ha un valore.

Se la rivoluzione digitale – che pure ha arricchito pochi e impoverito tanti – è davvero una strada senza uscita e senza ritorno, rendiamola almeno più equa. Che la sconfitta di Meta diventi un manifesto di resistenza culturale. I giornalisti non devono più arrendersi ma passare all’attacco.

Eugenio Gallavotti
gallavottieugenio@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Le iconografie pubblicate sul sito di Senza Bavaglio sono di Valerio Boni

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