Giornalisti minacciati: Raffaella Fanelli chiama ma Ordine e FNSI non rispondono

Speciale per Senza Bavaglio
Adele Marini
Milano, 14 febbraio 2022

Caro Ordine, caro sindacato vi scrivo “Sono la giornalista che ha fatto riaprire le indagini sull’omicidio di Mino Pecorelli, il collega ucciso il 20 marzo del 1979 a Roma. Perché vi scrivo? Perché ho bisogno d’aiuto.”

Questo è l’incipit della lettera inviata all’Ordine e alla Fnsi, da una giornalista d’inchiesta, una brava, coraggiosa, perfino spericolata collega capace di muoversi negli ambienti più a rischio della criminalità mafiosa e politica, rigorosamente senza scorta nonostante riceva lettere di minaccia e buste con proiettili.

Si chiama Raffaella Fanelli, è professionista e lavora come freelance. La sua richiesta di aiuto all’OdG e alla Fnsi non nasce dall’esigenza di stabilità occupazionale e di un equo compenso per il suo lavoro, ma dalla sacrosanta esigenza di essere tutelata da uno dei mali che affliggono l’informazione nel nostro Paese, un male che ha contribuito a farci sprofondare agli ultimi posti nella classifica della libertà di stampa. Tutelata cioè dalla “querela temeraria”, azione altrimenti detta “ti porto in tribunale”, oggi diventata endemico.

Come è noto a tutti i giornalisti, queste querele, generalmente fondate su accuse pretestuose che poco o nulla hanno a che fare con i reati a mezzo stampa, con richieste di risarcimenti a molti zeri, oggi sono frequenti come le zanzare in estate.

Chiunque si occupi di cronaca o faccia inchieste scomode lo sa: non basta avere prove inoppugnabili che provino la veridicità di quanto di è scritto è vero, perché le persone di cui si parla, anche se criminali passati in giudicati o presunti tali, con alle spalle condanne per reati di sangue, possono sentire lesa la loro reputazione.

Ed è sufficiente a volte chiamare “mafioso” un soggetto condannato in base al 416bis per vedersi arrivare una querela dai suoi parenti o da lui stesso ai domiciliari.

Dunque, se oggi si può portare in giudizio un giornalista per spillargli quattrini al solo costo delle marche da bollo occorrenti per la querela, perché non farlo? Va detto che nella stragrande maggioranza dei casi queste denunce sono così smaccatamente pretestuose che i magistrati le archiviano senza alcun procedimento. Poi, se capita che si vada in giudizio perché la controparte si è opposta all’archiviazione, finiscono ugualmente in nulla.

Tuttavia, con i nostri tempi della giustizia l’iter può durare anni e questo solo fatto comporta un danno grave per il giornalista che, oltre a perderci il sonno, è costretto a farsi assistere da un legale se non ha alle spalle la totale manleva fornita dall’azienda editoriale o televisiva da cui dipende. In altre parole, se il giornalista non gode per contratto della tutela legale, finisce da solo nell’arena a difendersi dai lupi.

E’ questo che è capitato a Raffaella Fanelli: una vera persecuzione della quale sembra non riuscire a liberarsi.

Raffaella, puoi riassumere brevemente la vicenda che ti sta togliendo il sonno da tempo?

Tutto parte da una mia intervista a Vincenzo Vinciguerra, neofascista di Ordine nuovo e Avanguardia Nazionale, un’intervista video che ho realizzato nel gennaio 2019 nel super carcere di Opera, dove Vinciguerra è detenuto, quindi un’intervista autorizzata.

E’ grazie alle sue dichiarazioni sulla pistola usata per uccidere Mino Pecorelli che le indagini sulla morte del giornalista vengono riaperte, a distanza di quarant’anni dal delitto. Dopo questa intervista Vincenzo Vinciguerra viene chiamato a testimoniare a Bologna, nel processo in corso ai mandanti della strage alla stazione, dall’avvocato Andrea Speranzoni, legale di familiari delle vittime.

E mentre la procura di Bologna considera importante la testimonianza di Vinciguerra la procura di Verona decide di sequestrare la mia intervista, in violazione dell’articolo 21 della Costituzione. Assurdo.

Un sequestro durato poche settimane perché Andrea Di Pietro, il legale di Ossigeno, l’osservatorio che tutela i giornalisti minacciati, fa dissequestrare il video.  Nessuno, però, verifica se in quel sequestro preventivo siano state commesse irregolarità. Di certo era irregolare, eppure è stata accettata, la costituzione di parte civile della figlia di Paolo Signorelli nel mio successivo rinvio a giudizio deciso da quella stessa Procura.

Perché tutto parte da una querela presentata dalla figlia di Paolo Signorelli. Ormai descritto negli articoli presenti in rete come un perseguitato politico. In realtà nei verbali dei primi pentiti dei Nar, i nuclei armati rivoluzionari di Valerio Fioravanti, è rappresentato in ben altro modo. Di fatto, Paolo Signorelli, passato a miglior vita nel 2010, è stato condannato in via definitiva per associazione sovversiva e banda armata. Possiamo anche santificarlo ma le sentenze restano. Al di là di quelle che sono le mie ipotesi sulle amicizie di destra di determinate persone che ho indicato nella mia inchiesta come coinvolte nell’omicidio di Mino Pecorelli, ci sono da considerare i fatti:  sono stata rinviata a giudizio non per qualcosa che ho detto o scritto io ma per un’affermazione di Vincenzo Vinciguerra. Per un’affermazione presente nei suoi verbali da oltre trent’anni quindi già vagliata dagli inquirenti.

Qui si pone una questione giuridica importante. Può essere l’intervistatore ritenuto responsabile per le affermazioni dell’intervistato? C’è in merito una specifica sentenza della Corte Europea per i diritti dell’uomo (n.17233/17 Fuchsmann vs Germania) depositata il 19 ottobre 2017, che sentenzia come il diritto di informare prevalga sul diritto alla reputazione personale, laddove oggetto della cronaca siano personaggi che, nonostante il trascorrere del tempo, conservano non solo un rilievo pubblico ma anche storico. Penso che la eventuale, anzi certa – considerati i presupposti –  condanna della sottoscritta diventerebbe un segnale gravissimo d’intimidazione contro la libertà di stampa.

Raffaella, cosa ti aspetti dall’Ordine e dalla Finsi?

Mi aspetto che il prossimo 22 aprile quando entrerò nell’aula del tribunale di Verona, imputata per un reato che non ho commesso, siano accanto a me. Chi ha deciso il rinvio a giudizio di una giornalista deve sapere che in quell’aula non sarò da sola. Che ci saranno tutti i miei colleghi rappresentati da Ordine e Fnsi, che ci saranno altri occhi a guardare. A capire i motivi, veri, del rinvio a giudizio. Quel giono la Corte sentirà anche Silvia Signorelli e Vincenzo Vinciguerra,

Sei stata rinviata a giudizio da un magistrato dopo un’intervista importante, la stessa che ha fatto riaprire le indagini sull’omicidio di Mino Pecorelli. L’intervista è stata prima sequestrata, poi dissequestrata e tuttavia dovrai essere ugualmente processata. Non è un’incongruenza? Perché tanto accanimento?

Me lo chiedo anch’io. Per questo ho scritto al presidente dell’Ordine Nazionale, al presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, cui appartengo, e alla Fnsi, chiedendo la loro presenza. E il loro intervento.

A parte il solito “due pesi e due misure” non pensi che dietro l’accanimento dei politici contro i giornalisti ci sia la voglia di farla pagare e di mettere a tacere voci scomode?

Per fermare un giornalista non usano più i proiettili ma le querele. E’ assurdo, oserei direi scandaloso, che la minaccia a un giornalista arrivi con l’appoggio della magistratura. Con l’appoggio di chi dovrebbe difenderci. Sono inaccettabili le violente minacce cui l’informazione è sottoposta. Non c’è, nel nostro ordinamento, un reato che tuteli la libertà di espressione giornalistica.

Hai scritto due libri d’inchiesta pubblicato da editori importanti. Il primo, La strage continua ha fatto riaprire le indagini sull’omicidio di Mino Pecorelli, il collega più diffamato e detestato della storia del giornalismo in Italia. Il secondo, La verità del Freddo, fa luce su risvolti inediti e sulle protezioni politiche assicurate a esponenti della banda della Magliana. Hai rischiato molto, anche perché hai ribadito le tue verità anche in diversi articoli. Hai mai avuto davvero paura?

A farmi paura sono proprio le persone che ho indicato nel mio libro, “La Strage Continua”, come coinvolte nell’omicidio di Mino Pecorelli. Sono loro a farmi paura. Perché potrebbero aver trovato la strada giusta, oserei dire legale, per fermarmi.

Parliamo del secondo peggior male che affligge la nostra informazione: la cattiva abitudine dei giornali e tivù di pagare le interviste esclusive sui fatti di interesse pubblico, sottraendo di fatto agli altri la possibilità di approfondire. Puoi riassumere la vicenda dell’intervista da te registrata da cui è emerso questo problema?

La chiacchierata registrata con il collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, il mafioso che partecipò alla strage di Capaci.  Ad infastidirmi è stata la confidenza di questo signore che ho incontrato e intervistato più volte in passato, su un’esclusiva concordata per un documentario che sarà trasmesso proprio per il trentennale, quindi a ridosso del 23 maggio. Un’intervista video pagata 10 mila euro.  Un pagamento non illegale ma sicuramente immorale: perché consentire a un carnefice di guadagnare sul sangue delle sue vittime è disgustoso, a dir poco.

Che a stringere l’accordo siano onesti paladini dell’antimafia, fa ancora più orrore. Ho quindi telefonato all’illustre collega a capo della produzione di questo documentario invitandolo a bloccare quei soldi perché, al di là della morale che si può più o meno avere, un’intervista pagata perde la sua autenticità. Mi spiego meglio: chi paga può anche chiedere determinate risposte. Può permettersi di imbeccare, ma anche di mettere dei paletti. E questo non è giornalismo.

Grazie Raffaella, ti assicuriamo che alla tua prossima udienza, Senza Bavaglio ci sarà

Adele Marini
adelemarini.marini@gmail.com
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