Senza Tonino Tatò, Berlinguer sarebbe stato lo stesso?

I due, uno cattolico-comunista, l’altro solo comunista, formavano un binomio perfetto. Ecco il ricordo della figlia del fedele amico e consigliere del segretario del PCI

Giovanna Tatò
San Gimignano, giugno 2024

Quarant’anni fa moriva Berlinguer e con lui, almeno per molti, la grande speranza di cambiare in meglio questo Paese. Fu un colpo quasi mortale per mio padre, Antonio Tatò, conosciuto più come Tonino. Non a caso, quel terremoto gli portò, pochissimo tempo dopo, il primo infarto. Era suo fedele amico e compagno di tante battaglie. E quella morte fu una cannonata che si abbatté, distruggendoli definitivamente, i quindici anni di lavoro politico che entrambi avevano compiuto in nome di un auspicato, crescente avanzamento democratico e pluralistico della società.

Già con l’assassinio di Aldo Moro sei anni prima aveva subito un duro colpo il progetto di rinnovamento sociale, politico e culturale da Berlinguer e da Tatò agognati per l’Italia.

L’abile tessitura di una parte di esso da parte di Tatò era cominciata in quegli anni con la messa in campo di un passo audace e anche ostacolato, il famoso “compromesso storico”. Una battaglia persa non voleva dire aver perso la guerra. Il disegno era vasto, richiedeva pazienza, un impegno totale e costante, Berlinguer pose fine al tentativo di coinvolgere il più grosso partito italiano, la Democrazia Cristiana, nel progetto visionario di rinnovamento della società (rinnovamento a destra e rinnovamento a sinistra) e voltò pagina.

Ronino Tatò e Enrico Berlinguer

Dall’incontro fecondo con Tatò, dalla fucina sempre avviata dell’elaborazione dei loro ideali confrontati con la società viva, nacque la prosecuzione del loro lavoro con «la questione morale» e «l’alternativa democratica». Lo scempio degli aiuti ai terremotati dell’Irpinia nel 1980 fu la cartina di tornasole per la fondatezza di quelle idee. I due uomini avevano trovato una sintonia eccezionale. Non solo c’era la situazione italiana di cui avere cura ma tutto il fronte internazionale su cui lavorare: oltre al capitalismo era sotto osservazione anche il socialismo dei Paesi dell’Est. In un famoso discorso a Mosca, Berlinguer ne dichiarò la carenza democratica. E questo fu tutt’altro che gradito, non solo alla nomenclatura sovietica ma anche all’interno della segreteria italiana.

Nella ricostruzione del quindicennio berlingueriano o nelle riflessioni su quel periodo perché non si indaga mai a fondo l’apporto versato da Tonino Tatò sui vari fronti della politica di Berlinguer? Eppure, le fonti ci sono. Perché si preferisce rimanere sulla superficie esteriore?

Nel quindicennio del suo potere, dal 1969 al 1984, Berlinguer ha sempre avuto al fianco un infaticabile Tonino Tatò, coltissimo e di intelligenza acuta, estroverso e rapido nelle cose del mondo, di etica profonda e carattere tenace, amico, fidato consigliere, capo ufficio stampa del partito. Lo chiamava “il mio Tatò”. Affidò nelle sue sapienti mani la propria immagine che egli seppe plasmare dosando addizione e sottrazione e facendola divenire amatissima da tutti travalicando, con meraviglia generale, i confini del partito. Negli ultimi due anni, fu la sua “voce”: Berlinguer lo aveva investito del ruolo delicatissimo di parlare ufficialmente come se fosse lui stesso.  Già in precedenza si era fatto sostituire talvolta da lui nelle riunioni con i compagni delle sezioni. A tal punto si fidava di mio padre, a tal punto lo aveva portato la sintonia con cui avevano camminato insieme verso il miglioramento generale nella politica italiana di quegli anni complicati tra “strategia della tensione” rossa e nera, rivolte studentesche, trasformazioni industriali, aneliti sociali. E tutto questo avveniva nel quadro internazionale del mondo diviso nei due blocchi della “guerra fredda” che Berlinguer, come disse più volte, voleva superare nella pace e nella democrazia. Un lavoro dentro e fuori i confini. Uno sforzo titanico.

Ma il risultato in Italia ci fu: alle elezioni politiche del 1976 un italiano su tre votò il partito di Berlinguer.

Segretario del partito comunista più grande d’Europa, Berlinguer trovò in Tonino Tatò un alleato fedele, un sostegno, il compagno con cui poteva elaborare liberamente, lontano dai vincoli imposti dalle dichiarazioni formali e dagli equilibri interni ed esterni da conservare, strategie e proposte che, calibrate attentamente, sarebbero diventate pubbliche, con cui dividere il fardello di un progetto politico così vasto e così profondo, nazionale e internazionale. Gramsci e Togliatti, in parte rivisitati in chiave  attuale, erano i pilastri politici di Tatò, e verso la loro lettura mi spingeva, ma anche Marx sebbene io ricordi una netta prevalenza verso i primi due. Certamente condivideva questa conoscenza con Berlinguer e probabilmente la loro grande intesa riposava su questo retroterra formativo comune che si vivificava nell’attualità e si univa alla loro spinta morale verso il riscatto sociale, e non solo, dei più poveri, degli indifesi, degli sfruttati. Con tutto quel che questo implica.

Circondati dai fotografi

Un Berlinguer pronto al dialogo affidava a Tatò – che gli riferiva tutto al millesimo come testimoniano le sue note – la gestione completa dei rapporti con gli altri partiti e i loro segretari, con i politici, con il Quirinale, con le istituzioni, con l’industria, con i privati, con le associazioni, con la curia vaticana e, soprattutto, con i media. Una scelta che proveniva dall’assecondare il proprio temperamento schivo, riservato, riflessivo. In prevalenza, preferiva occuparsi dei rapporti internazionali, dai quali, comunque, non escludeva il suo fido Tatò: fin da subito dopo la sua elezione a segretario generale, con il golpe in Cile contro Allende, mostrò questa vocazione. La famosa visita in Bulgaria. Presto, arrivò la teorizzazione dello “strappo” da Mosca. L’eurocomunismo. Si confidavano l’uno con l’altro nel rispetto dell’indole di ognuno. Parlavano molto e di tutto.

Si seppe anni dopo che i due venivano spiati in casa di mio padre: ritenuto un luogo sicuro dalle necessità formali, Tatò e Berlinguer, in quell’appartamentino dove mio padre abitava, si abbandonavano liberamente alla elaborazione dei loro pensieri, accuratamente registrati a loro insaputa. Le microspie, nascoste in casa per tre anni, erano della CIA ma Berlinguer e il suo partito erano bersaglio di campagne mediatiche denigratorie anche dai Servizi Italiani, dai Servizi britannici e da quelli sovietici, il famigerato KGB.

Documento tutto questo nel mio “PORTE CHIUSE – Lettera ai genitori Erminia Romano e Tonino Tatò”, editore Maurizio Vetri, nella parte che riguarda Tatò e documento anche che il sodalizio fra mio padre e Berlinguer non piaceva a molti. Era una coppia potente di pensiero e politicamente influente, erano uomini di prestigio e temuti per la loro incorruttibilità.

Per indebolire Berlinguer e la sua gestione del partito, vennero messi in atto tentativi di separarli con lusinghe di candidature in Parlamento per mio padre. Da lì, poteva aspirare a ruoli più brillanti, sembravano sottintendere, a un ottimo stipendio, ecc. (Mio padre prendeva dal partito come Capo Ufficio Stampa, il minimo sindacale: non voleva gravare più del necessario, mi disse). Me ne parlò,  amaramente, dicendomi che aveva capito il disegno dietro queste offerte e che per questo aveva rifiutato, ben due volte, aggiungendo che il suo posto era accanto a Berlinguer sebbene questo lo lasciasse in ombra: lì avrebbe potuto fare molto di più per le loro idee, per il Paese.  La sua amicizia-alleanza lo portava anche a proteggere il segretario dal “fuoco amico”, vale a dire le insidie, dissimulate, dei suoi stessi compagni: era sotto gli occhi di tutti che negli ultimi tempi Berlinguer veniva isolato, il progetto del “compromesso storico”, ormai rientrato e ridotto alla formula di governo della “solidarietà nazionale”, aveva fatto venire l’orticaria a molti, lo “strappo” da Mosca, altrettanto. Nel novembre 1980, secondo un “report” del SISDE riferito da un denso opuscolo pubblicato da «l’Espresso»  con il  numero del 1 gennaio 1994,  mio padre orchestrò un’abilissima e audace manovra sulla stampa che portò il partito a superare le divisioni interne e a compattarsi su Berlinguer. E lo salvò dalla decapitazione.

Tatò veniva da anni di lotta clandestina al fascismo e dalla Resistenza alla quale aveva partecipato come aderente al Movimento dei Cattolici Comunisti (radice del futuro “compromesso storico”), da venti anni nel sindacato della CGIL iniziati con Giuseppe Di Vittorio e conclusi con la direzione  dell’Ufficio Studi mentre, al tempo stesso, nel partito era membro della Commissione Lavoro di massa. Venti anni di contatto continuo con la molteplice realtà del mondo del lavoro in mutamento nella tumultuosa era postfascista e per l’appena scoppiato “boom” economico, sempre a fianco dei diritti dei lavoratori per la gran parte vittime di sfruttamento. Aveva elaborato acute analisi delle diverse situazioni lavorative ed economiche, delle leggi che il Parlamento approvava in materia, perorava il riconoscimento della dignità del lavoro, dei lavoratori e dei loro diritti inalienabili a partire dall’accrescimento di tale consapevolezza e il sorgere di essa in chi non sapeva neanche di avere quei diritti.

E tutto questo, quando venne il momento, traspariva: quando andava in pubblico veniva riconosciuto e suscitava affetto, calore umano. Lo vedevo quando ero con lui. Di recente, in occasione della commemorazione della scomparsa di Berlinguer, si è avuta dimostrazione di questo legame con Tatò rimasto nella gente, non solo di sinistra, con l’ampio successo della divulgazione di alcune foto sui social che ne ritraggono il lavoro insieme.

Era sempre pronto ad aiutare chi era in difficoltà soprattutto  con il lavoro ma anche con altro. E lo faceva in silenzio, tutto nel massimo riserbo: questa era la sua cifra, sempre, a partire dal suo sodalizio con Berlinguer vissuto nella massima discrezione. Ha lasciato che il suo ruolo pubblico sovrastasse e coprisse il suo ruolo effettivo, molto più ampio, per meglio lavorare alla realizzazione di quegli ideali che condivideva con Enrico.

Chiunque, in nome di una seria ricerca storiografica, voglia ricostruire o abbia ricostruito, voglia riflettere o abbia riflettuto su quel quindicennio avrebbe dovuto o dovrebbe sentire la necessità di approfondire quel ruolo prezioso svolto da Tatò nelle politiche berlingueriane al di qua dell’immagine pubblica che lo ha  contraddistinto per sottrazione. Catalogare frettolosamente una parte del binomio “Berlinguer-Tatò” come accessorio trascinati dalle circostanze e dalle convenienze, rende un fallimentare servizio alla ricerca storiografica pura.

Non sono solo io a dirlo: «[…] che uno storico di domani sappia prenderne le misure [di Antonio Tatò] in senso giusto, senza essere deviato da polemiche troppo contingenti» (Leopoldo Elia, 1992); «È tempo che di Tatò ci si occupi in sede storiografica, come protagonista importante di quel cinquantennio di vita italiana che è ormai alle nostre spalle» (Vittorio Tranquilli, 2001)

Voglio dare solo un paio di piccoli esempi del patrimonio personale riversato nel Paese da mio padre nel quindicennio berlingueriano. Nel settembre 1961, ben otto anni prima che cominciasse a lavorare con Berlinguer, Tonino Tatò scriveva su uno speciale numero di «Rassegna sindacale» dedicato interamente all’economia e intitolato «Economia e sindacato»:

I lavoratori che si organizzano nel sindacato sono anche cittadini, persone: uomini, insomma. E come tali sono interessati e inseriti in una molteplicità di problemi, non soltanto economico-professionali, ma culturali, morali, politici, giuridici, tecnici, produttivi, e perciò sono portatori all’interno del sindacato delle esigenze che in loro nascono dalla attiva partecipazione alla vita complessiva della società e del loro tempo, e chiedono che anche il sindacato se ne faccia in qualche modo interprete e portavoce.

(citato da Vittorio Tranquilli in «Antonio Tatò, la Resistenza, il sindacato», Roma 2001, p. 154).

È l’articolazione di un concetto qui presentato come connaturato al sindacato in quanto enuncia diritti naturali delle persone che lavorano ma in realtà si tratta di un concetto non solo innovatore nel sindacalismo ma anticipatore di quanto ritroveremo anni dopo nella elaborazione teorica di qualcosa pertinente più alla foma-partito. La conferma la troviamo in un altro brano di un suo articolo del marzo 1964 apparso sulla «Rivista trimestrale» dal titolo «L’autonomia sindacale nella programmazione economica» (citato in Vittorio Tranquilli, «Antonio Tatò, la Resistenza, il sindacato, Roma 2001, p.183):

Il sistema nel quale la programmazione [economica] opera, con quegli effetti riequilibratori che nessuno può disconoscere come positivi, si fonda pur sempre sul fatto che una parte dell’umanità che in esso vive, una parte degli uomini che vi lavorano, sono ridotti a capitale. Questa parte, perciò, relativamente al “bene comune” – che pur la programmazione pretende di determinare – rimane sempre intollerabilmente discriminata.

L’intelligenza di Enrico Berlinguer, politica e umana, fu grande e comprendeva anche assumere l’assonanza di vedute e di obiettivi con Tonino Tatò, di vedere in lui una autentica  risorsa per il suo progetto politico e invece di temerlo e umiliarlo ne fece il suo grande compagno.

Su Tonino Tatò e il suo effettivo apporto alla politica berlingueriana si è sempre taciuto, ci si è solo fermati all’apparenza che, certo, i due uomini volevano e avevano stabilito di comune accordo. Una porta chiusa. Perché.

Io credo che quella porta vada aperta perché vi è molto da scoprire e da mettere a fuoco con l’indagine su quanto una verità storica logicamente comporta.

Se avessi vent’anni di meno, comincerei io.

Giovanna Tatò

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Le iconografie di Senza Bavaglio sono di Valerio Boni

 

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