Caro Cairo, credevo che volessi fare del Corriere il New York Times e invece…

Speciale Per Senza Bavaglio
Massimo A. Alberizzi
Milano, 17 giugno 2023

Ieri abbiamo pubblicato il documento, pacato ma chiaro, che l’assemblea dei redattori del Corriere della Sera ha approvato a larghissima maggioranza. Oggi, sul giornale, abbiamo letto la risposta dell’editore Urbano Cairo che colpisce per la sua chiarezza ma anche per la mancanza di compostezza, moderazione e modestia. E non solo perché vengono riportate anche alcune considerazioni non del tutto vere, come l’affermazione che la pubblicazione del comunicato dell’assemblea non è dovuta in base all’articolo 34 del Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico. Pubblicato per magnanimità o gentile concessione dell’editore, come si sottintende nella nota? No, assolutamente no!

Bastava che uno qualunque dei redattori del Corriere si rivolgesse all’’Associazione Lombarda dei Giornalisti o all’Associazione Stampa Romana e il comunicato avrebbe dovuto essere pubblicato proprio in base a quell’articolo 34.

Quello che poi Cairo stigmatizza è che quel documento sia stato votato da 130 giornalisti il 27 per cento dell’intera redazione. A parte il fatto che ci piacerebbe sapere come l’editore è venuto a conoscenza di tutti i numeri (le quinte colonne che fanno il suo interesse invece che quello della redazione?) il suo conto non ha preso in considerazione quanti si allontanavano dall’assemblea per evitare di votare.

La risposta di Urbano Cairo al documento approvato in assemblea dai redattori del Corriere

Minacciati non crediamo, ma intimiditi sicuramente sì, come fanno fede i racconti di chi ha ricevuto messaggi del tipo: “Meglio non votare, allontaniamoci”.

A noi dispiace profondamente che Cairo sia sceso a livelli così bassi. Quand’è arrivato al Corriere avevamo sperato che finalmente un editore puro volesse produrre un giornale di qualità!

Avevamo fantasticato che avrebbe imitato Arthur Ochs Sulzberger jr. , l’editore del New York Times, un misto di prestigio e autorevolezza. Certo, sapevamo che tutta la carriera di Cairo era incernierata sulla pubblicità. Ma ci illudevamo che la pubblicità fosse stata solo un trampolino di lancio per conquistare la corazzata dell’editoria italiana. Una volta presa, la si sarebbe sistemata sui suoi binari più congeniali. Ci sbagliavamo.

Per rimettere in sesto i conti, il Corriere ha ripiegato sul gossip, sulla politica asfissiante, ha rinunciato alle inchieste e alle domande graffianti. E poi si è tuffato in una volgare commistione tra informazione e pubblicità. Gli occhi sono stati rivolti al potere e la gente comune, cioè il grosso della popolazione, è stato relegato in seconda fila.

Certo, i conti sono stati rimessi in sesto ma a che prezzo!

I lettori, che non sono stupidi come credono in tanti, sono scesi dalla corazzata e si sono allontananti a nuoto. Certe paginate sono imbarazzanti, per chi lavora al Corriere e ha dato tanto alla testata.

Naturalmente non per quella parte della redazione che mira a piccole prebende e miseri benefici e non si rende conto che alla perdita di prestigio e autorevolezza fa subito riscontro la perdita di pubblicità e quindi di posti di lavoro. State tranquilli non è una reazione immediata. Ci vuole un po’ di tempo. Anche il New York Times stava perdendo copie poi si è rimesso in sesto, puntando su reputazione, stima e competenza. Così nel 2022 aveva 8.328.000 abbonati puramente digitali e 780.000 abbonati all’edizione cartacea.

 

Ok, lo sappiamo che New York Times e Corriere della Sera non sono paragonabili, che il mercato entro cui si sviluppano è diverso, che il problema della lingua è enorme, ma, fatte le debite proporzioni e i doverosi distinguo, da una parte c’è un quotidiano che ha reagito puntando su autorevolezza e prestigio, dall’altro ce n’è un altro che mira a far soldi, tanti maledetti e subito, senza pensare al futuro.

Se per rimettere i conti in sesto bisogna pagare gli articoli dei collaboratori 20 euro cioè il salario di un operaio non specializzato è inutile, caro Cairo, cantare vittoria sbandierano le proprie conquiste. Solo chi non conosce il mondo dell’editoria più darti ragione. Un articolo se è di valore, autorevole e di prestigio deve valere molto di più di 20 euro. Con 20 euro ti devi accontentare di un prodotto di seconda o terza scelta anche se l’estensore è un ottimo professionista ma che non ha il tempo di esprimersi al meglio “perché il gioco non vale la candela”.

“A beneficio dei lettori il costo è rimasto invariato”, scrivi. Magari, alza pure il costo del cartaceo ma evita di pubblicare sul Corriere la pubblicità mascherata che ci pare supplisca il mancato adeguamento della somma da pagare all’edicola.

Vanti l’accordo “accettato” dal CdR la scorsa settimana e respinto dall’assemblea e lo liquidi senza appello. Dovresti capire il perché. Con quel voto a grande maggioranza, l’assemblea dei redattori ha mostrato di non gradire l’atteggiamento arrendevole e filoaziendale di quella parte del Comitato di Redazione più attento ai tuoi interessi che a quelli del giornale e della redazione.

Cancellare con un tratto di penna accordi raggiunti in sede sindacale è prima di tutto scorretto, ma poi autoritario e pretenzioso. La garanzia di dividendi alla proprietà (compreso te stesso) non può essere raggiunta sottraendo benessere a chi lavora e assicura ogni giorno un prodotto pregevole. Un imprenditore lungimirante dovrebbe rendersi conto del valore dei propri dipendenti e dei propri collaboratori.

I redattori del Corriere, scrivi, guadagano in media 90 mila euro. Ma sai bene che le medie così calcolate hanno un valore assai relativo. Se due persone hanno due polli la statistica sostiene che hanno un pollo a testa. Ma se uno dei due li mangia entrambi all’altro non resta niente da fare arrosto.

Allora, il dato va estrapolato dagli stipendi dei direttori, dei vicedirettori (anche ad personam) e sarebbe più corretto scrivere qual è la media dei guadagni dei redattori ordinari. Temo che quel 90 mila verrebbe molto ridimensionato.

Infine, l’ultima arrampicata sugli specchi è sostenere che la promiscuità tra uffici della redazione e amministrazione sia ininfluente. Eh, no! Gli editori del Corriere si sono sempre ben guardati dal travalicare quello steccato. Neppure ai tempi della P2, Tassan Din, l’allora direttore generale, osava avvicinarsi all’ufficio del direttore. Ciononostante, la redazione lo cacciò. Lui e i suoi amici.

Rinunciare a quella pretesa sarebbe un gesto di conciliazione e buona volontà che sarebbe anche apprezzato. Intestardirsi potrebbe esacerbare la situazione e incancrenire i rapporti.

Ultima chiosa. Indro Montanelli a 90 anni e rotti saliva a piedi e non usava l’ascensore appena costruito nell’atrio.

Massimo A. Alberizzi
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