“Come eravamo”: il libro di Bruno Tucci per capire come è cambiata l’informazione

Oggi un politico se deve far conoscere una sua opinione si affida a un twitt o va su Facebook, non c’è più il confronto con il giornalista che lo interroga

Speciale per Senza Bavaglio
Paolo Conti
Roma, 5 agosto 2022

Il titolo (“Come eravamo”, edito dalla Fondazione sul giornalismo “Paolo Murialdi”) è una esplicita ammissione: Bruno Tucci, storico inviato del giornalismo del secondo Novecento e punto di riferimento per intere generazioni di giornalisti, nel suo libro spiega come e perché sia definitivamente tramontato non solo un intero mondo professionale e, insieme, come sia scomparsa quella specializzazione, la figura dell’inviato (la mitica “argenteria di un giornale”, definizione molto retorica ma usata da sempre, Tucci ce lo rammenta in un capitolo) che per generazioni ha rappresentato il punto di arrivo della categoria e quindi la migliore offerta possibile al lettore.

Tucci entrò nella redazione del Messaggero nel 1957: ha quindi vissuto in prima persona quella che lui stesso definisce una “rivoluzione copernicana”. Tucci ha scritto grandi pagine di cronaca (dal 1978 sul “Corriere della Sera” e per 22 anni) che ormai sono storia contemporanea: la rivolta di Reggio Calabria nel 1970 (uno spaccato di quell’Italia, una sommossa per un cambio di mansioni tra le principali città della Regione, oggi nessuno se ne occuperebbe, e invece si respirò quasi un’aria da guerra civile).

I tanti omicidi di radice terroristica negli Anni di Piombo. Il grande processo alle Brigate Rosse a Torino. La morte di Giangiacomo Feltrinelli. La morte di Paolo VI. Lo scandalo della P2, che terremotò l’Italia politica e sfigurò la storia e l’identità del “Corriere della Sera”. Il terremoto in Irpinia. Il crollo del comunismo in Albania con le prime libere elezioni. E potremmo continuare.

Ma Tucci non si limita assolutamente a riportare alcuni brani della sua personale storia professionale (avrebbe potuto fare molto di più).

C’è ovviamente la carta che soccombe alle nuove tecnologie, alla tirannia del tempo reale, all’universo del web nelle sue numerose declinazioni (“Oggi un ministro o un uomo politico se deve far conoscere una sua opinione si affida a un twitt o va su Facebook, non c’è più il confronto col giornalista che lo interroga…. I social hanno preso il sopravvento a discapito di un’informazione più corretta e avveduta”).

Ma l’autore ci porta anche verso altre riflessioni. Per esempio il ruolo di tanti, importanti direttori nella morte della figura dell’inviato per motivi editoriali, di risparmio sui costi (Tucci non fa sconti a nessuno, fa nomi e cognomi con estrema chiarezza).

Però, con grande onestà intellettuale, indica in parallelo le tante responsabilità di una categoria imprighita: “Non esiste più la curiosità della notizia. Tutto si fa attraverso il telefonino che ha battuto l’Enciclopedia Treccani. Non c’è più la curiosità di andare a vedere un fatto., cosa obbligatoria per i cronisti di un tempo. Perché quando vai sul posto assapori la notizia, aggiungere la ‘odori’ perché ogni piccolo particolare può rendere quel che scrivi originale rispetto a un altro”).

In più appaiono pagine letteralmente straordinarie sulla sua esperienza da presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio: un universo in cui, Tucci lo racconta benissimo , le cordate e le trappole non hanno assolutamente nulla da invidiare al mondo politico italiano.

Carlo Verdelli, nella sua densa e schietta introduzione, definisce il libro di Tucci una “macchina del tempo”. Ma c’è il futuro al quale guardare, e Tucci ne parla molto, soprattutto quando ricostruisce i suoi sforzi per sottrarre al monopolio delle università private (dunque delle amicizie e delle cordate) la possibilità di creare un corso di giornalismo in un ateneo pubblico, com’era doveroso ed eticamente indispensabile (il Master esiste tuttora, in convenzione con l’Ordine del Lazio, e si deve agli anni della presidenza Tucci).

Ma si rimane senza parole quando l’autore scrive: “Nemmeno il Consiglio Nazionale dell’Ordine mi dette il suo aiuto. Anzi, cercò di metterci i bastoni tra le ruote perché l’iniziativa non era partita da loro. Vincemmo la battaglia e la scuola fu aperta”.

Un episodio surreale, e insieme inquietante, di fuoco amico sufficiente, da solo, a spiegare molte ragioni della crisi strutturale di una professione che (lo dicono, anzi: lo diciamo in tanti) dovrebbe cambiare partendo da una spinta auto-riformatrice sia delle rappresentanze sindacali, sempre più chiuse in un mondo autoreferenziale e lontane da una realtà in costante mutamento, sia dalla struttura dell’Ordine, tagliato su un mondo sparito.

Verdelli conclude sostenendo che sarà il lettore a rispondere se il giornalismo “era meglio prima o se è meglio adesso”.

Giustissimo e doveroso: come sappiamo da sempre, il lettore è l’unico nostro editore di riferimento, l’unico vero “padrone” del nostro lavoro. E il libro di Bruno Tucci è uno strumento indispensabile per attendere la risposta.

Paolo Conti

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