Da Il Giornale a Mondadori: il boomerang delle accuse di Stampa Democratica

La negata possibilità di replicare alle accuse di fake news, offre lo spunto per svelare come Stampa Democratica, che si proclama baluardo della difesa dei giornalisti, abbia nel suo armadio più di uno scheletro: almeno quattro

Speciale per Senza Bavaglio
Valerio Boni
Segrate, 7 febbraio 2021

Una settimana fa abbiamo pubblicato un articolo dedicato alla delicata situazione della redazione de Il Giornale, che ha ormai detto addio alle postazioni di lavoro dei giornalisti come le abbiamo conosciute fino a oggi. Un’analisi firmata Senza Bavaglio per il semplice motivo che chi ha curato il pezzo preferisce restare anonimo a causa della sua posizione scomoda nella vicenda. Oltre alla firma, il programma inserisce il nome di chi mette online il testo, senza la possibilità di modificarlo se l’account non prevede i privilegi. In questo caso è apparso il mio nome.

Il giorno seguente dal Cdr è arrivata una cortese richiesta di replica, che abbiamo immediatamente provveduto a inserire nel sito. Ma poiché si faceva sarcasticamente più volte riferimento alla mia persona, ho chiesto a mia volta una precisazione, visto che il sito di Stampa Democratica ha rincarato la dose, accostando il mio nome al concetto di fake news. A oggi non ho avuto alcun riscontro da parte di Matteo Sacchi, il collega del Cdr, tantomeno dalle pagine web di StampaDemocratica.

Controreplica ignorata

La controreplica conteneva tra l’altro una considerazione: come possono essere interpretati in modi tanto differenti eventi che coinvolgono persone vicine tra loro? Probabilmente perché parte della responsabilità dipende da una carenza di trasparenza e di comunicazione da parte del Cdr. A volte si è convinti di trasferire tutte le informazioni, ma ciò non avviene. Succede in tempi normali, ed è scontato che le lacune si evidenzino nell’emergenza che impedisce il confronto diretto e richiede tempi di intervento rapidi perché gli accordi non possono aspettare.

Tutto tace, esattamente come sette anni fa, quando cominciò un’altra vicenda, non ancora conclusa, fortemente influenzata dai silenzi (ma non solo da quelli) di alcuni rappresentanti di quel gruppo sindacale. Un’esperienza che ha rafforzato la mia diffidenza in chi sente la necessità di inserire la denominazione “democratica” nel titolo, visti gli esempi non certo costruttivi della Repubblica Democratica Tedesca (DDR), della Repubblica Democratica di Corea (quella del nord, del presidente Kim Jong-un), per non dimenticare quella del Congo (Repubblica Democratica del Congo).

Per tornare ai fatti, sette anni fa (era il 10 febbraio 2014) un’assemblea dei soci metteva fine alla joint venture più misteriosa e remunerativa della storia per Mondadori e per un ristretto manipolo di giornalisti e quadri. Una società al 50 per cento con l’Automobile Club d’Italia nata alla fine del 2000 assicurava a tutto il gruppo di Segrate un costante e abbondante flusso per l’affitto della redazione motori, per continuare la pubblicazione del settimanale Auto oggi, curare l’edizione delle riviste inviate in abbonamento ai soci ACI, oltre a nuove iniziative.

Spese spensierate

Che i soldi non mancassero lo si capiva dalle spese spensierate, a cominciare dal “vortale”, l’avveniristico e rivoluzionario portale verticale presentato con un’indimenticabile monologo di Roberto “Nini” Briglia, mai decollato e messo a bilancio nel 2001 con lo stratosferico importo di 497.000 euro (pochi mesi prima si sarebbe parlato di circa un miliardo di lire). Ma non basta, si sommavano altri 363.400 euro per il lancio di quel sito e 72.000 euro di ricerche di mercato, giusto per fare qualche esempio.

Oltre a essere un socio, ACI era il primo cliente, ma soprattutto un ingenuo pollo da spennare. Contribuiva senza fiatare con il 50 per cento di queste spese a quotazioni ben superiori a quelle di mercato, ma alimentava anche tutte le altre aziende del gruppo, da Press-di per la distribuzione al settore digital. In più pagava integralmente a Mondadori Printing la stampa dei suoi house organ, inviati in abbonamento a oltre un milione di abbonati. A questo i bilanci lasciano presumere che da Roma arrivassero 225.000 euro per ogni numero realizzato, almeno 11 ogni anno. Entrate più facili e sicure rispetto a quelle provenienti da edicole e pubblicità per le altre riviste realizzate nella redazione unica.

Gestione sindacale spregiudicata

Tutto questo si svolgeva lontano da occhi indiscreti, a un paio di chilometri da palazzo Niemeyer. Una distanza sufficiente a fare in modo che il Cdr Mondadori potesse avere una minima idea di quello che succedesse nella nostra redazione motori. Avevamo un nostro fiduciario che partecipava alla vita sindacale, ma i membri non sapevamo quali testate editassimo e tantomeno si preoccupavano di rispondere ai nostri segnali di allarme che arrivavano da una gestione spregiudicata e irrispettosa delle più elementari norme dei contratti nazionali e integrativi.

Con queste premesse è evidente che l’esecutivo non fosse pronto a gestire quello che poche settimane dopo il 10 febbraio sarebbe diventato il primo caso di licenziamento di giornalisti a seguito della chiusura di una redazione Mondadori. Le risposte ai nostri messaggi sempre più preoccupati con l’avvicinarsi della data della nostra fine definitiva, il primo aprile, erano evasivi. In sostanza si limitavano a dirci che non eravamo una priorità, avevano altri problemi più imminenti da risolvere! Come se sei licenziamenti non fossero un problema.

Questa non è che l’introduzione, non breve ma necessaria, a un tema che parte da un peccato originale di un Cdr, ma non solo. Considerare quei sei licenziamenti un piccolo danno collaterale ha generato una reazione a catena, pronta a esplodere. Per maggiori dettagli, molti dei quali inediti, vi chiediamo di attendere un paio di giorni.

Valerio Boni
valeboni2302@gmail.com

(1 – continua)

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