Senza Bavaglio
Milano,12 dicembre 2018
Oggi alle 10, alla Corte d’Appello di Milano, Sezione Lavoro, si giocherà un’altra mano di una partita avviata il 10 febbraio 2014, ma che sarebbe mai dovuta cominciare. È quella impari tra un giornalista e i resti di quello che solo pochi anni fa era il più grande editore italiano, oggi impegnato in un’infinita serie di dismissioni in equilibrio tra la necessità di contare sulle agevolazioni ottenute da stati di crisi a ripetizione e quella di distribuire ai manager utili consistenti.
L’editore è la Mondadori, il giornalista è Valerio Boni, che ha vissuto 35 dei suoi 59 anni tra i corridoi di Palazzo Niemeyer, prima come collaboratore e dal 1989 come redattore e capo servizio. La storia è quella di un tradimento che è il segno del nuovo corso di un’azienda nella quale i gentiluomini sono ormai estinti e il sindacato è rimasto troppo lungo a guardare seguendo e assecondando ogni decisione della proprietà.
L’esempio del collega ne è un chiaro esempio: trasferito nel 2001 con l’intera redazione affittata alla joint venture nata tra Mondadori e l’Automobile Club, ottenne come altri 9 colleghi una lettera di garanzia che il CdR di allora, ben più attivo dell’attuale, richiese alla direzione del personale. Il contenuto di quel documento, riportato anche nella lettera di assunzione nella nuova società senza soluzione di continuità era esplicito, a prova di contestazione: “…le è sin d’ora garantito il rientro nell’Arnoldo Mondadori Editore SpA in caso di cessazione dell’attività, di cambiamento di gestione della nostra società in casi che determinino variazioni peggiorative dei patti sindacali in atto al momento del cambiamento di gestione, di fallimento della nostra società, di chiusura della testata Auto Oggi o di qualsiasi altra testata della nostra società nella quale lei dovesse essere trasferito in futuro, nonché in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo…”
Una sorta di polizza sulla vita che all’epoca era considerata del tutto superflua, visto che in tutte le situazioni critiche verificatesi fino a quel momento, e anche per qualche anno ancora, nessun giornalista era mai stato licenziato a seguito di chiusura di una testata o di scioglimento della partecipazione con un editore straniero.
Ma erano altri tempi e ACI-Mondadori divenne il laboratorio per tentare esperimenti al limite e oltre la soglia del consentito di ogni contratto e Codice. La sede era distaccata, a un paio di chilometri dal Palazzo, lontano da occhi indiscreti, l’ambiente ideale per gestire allegramente i milioni di euro che ogni anno erano versati dall’Automobile Club, che oltre a essere socio e pagare metà dei costi della redazione era anche il maggiore cliente, e ogni mese assicurava alle tipografie la stampa di un milione di copie degli house organ inviati in abbonamento ai soci. Era una collaborazione importante, annunciata come rivoluzionaria per il mondo dell’editoria, che fu sottoposta all’esame dell’Antitrust per l’importanza delle realtà coinvolte.
La redazione partì con dimensioni faraoniche, con direttori, vicedirettori e capiredattori in abbondanza, per poi perdere progressivamente pezzi favorendo la nascita della prima redazione unica della storia nell’aprile del 2002.
Con la firma di una clausola diritti, ogni redattore aveva l’obbligo di fornire contenuti per tutte le testate (non solo ACI-Mondadori, anche Mondadori) senza alcun compenso aggiuntivo. Erano anni in cui la disponibilità economica era molto ampia. Non si badava a spese, gli sprechi erano evidenti, ma nonostante tutto dopo tre anni di avviamento, nel 2004 ACI-Mondadori chiuse il bilancio poco sopra il pareggio, con un piccolo utile. Utile che divenne più consistente l’anno seguente, quando fu sfiorato il milione di euro di attivo.
L’equilibrio che assicurava la massima autonomia si spezzò improvvisamente nell’ottobre 2008, con l’annuncio della cessione dell’80 per cento delle quote di tutte le tipografie Mondadori al Gruppo Pozzoni. Una manovra pensata per fare cassa, che di fatto riduceva drasticamente i vantaggi derivanti dalla stampa delle riviste da inviare in abbonamento ai soci ACI. I milioni che prima entravano nelle casse, da quel momento transitavano soltanto, e il margine di guadagno si ridimensionava.
Gli effetti di questo cambiamento furono immediati, perché già nel dicembre del 2008 iniziò una serie di manovre non sempre limpide che aveva il chiaro obiettivo di abbattere le spese, e ottenere il massimo dei ricavi.
Progressivamente l’azienda si liberò dei vari direttori, concentrando il controllo su un unico personaggio, Giancarlo Pini, che contemporaneamente gestiva, con uno stile che non è azzardato definire discutibile, una testata di Mondadori (Panorama Travel) e le quattro di ACI-Mondadori. Tra varie vicissitudini, compreso uno stato di crisi con contratto di solidarietà concluso sorprendentemente dopo soli quattro mesi, nel 2010 si cominciarono a delineare problemi con le consociate, che il CdR non pensò nemmeno di prendere in considerazione e valutare.
Le preoccupazioni cominciarono a tradursi in realtà: nel giugno 2011 l’alleanza con Hearst per la realizzazione di Cosmopolitan cessò e la pubblicazione continuò a cura della società americana. In quell’occasione ai dipendenti fu lasciata la possibilità di scegliere se seguire il nuovo editore, o rimanere in Mondadori. E un giornalista optò per rimanere in sede, nonostante fosse ancora in vigore lo stato di crisi.
La crisi in ACI-Mondadori era tangibile, resa più evidente del raffreddamento dei rapporti tra le due parti della società. Un’accelerazione di questa condizione era arrivata dopo l’ispezione dei revisori dei conti ACI, che per la prima volta dopo oltre 10 anni decisero di vedere che cosa succedeva a Segrate e come venissero spesi i soldi.
Si resero conto che i loro house organ erano assemblati con gli scarti della produzione, riciclando articoli già pubblicati, per scelta del direttore e non certo per mancanza di disponibilità da parte della redazione. Un estremo tentativo di ottenere ricavi dopo la cessione del residuo 20 per cento delle tipografie da parte di Mondadori al Gruppo Pozzoni.
Come conseguenza all’ispezione arrivò prima la decisione di sospendere la pubblicazione di Hp Trasporti, poi quella ancora più preoccupante di regalare ai nuovi soci un abbonamento a Quattroruote. L’ACI, proprietario al 50 per cento di una società editrice di riviste specializzate offriva in omaggio ai soci la rivista concorrente più autorevole.
Né la direzione, né tantomeno il CdR ritennero preoccupanti questi segnali, così a maggio 2012 fu decisa la chiusura di Economy, mentre all’inizio del 2013 arrivò la notizia che sarebbe stata chiusa la UOR Mondadori TV e sarebbe cessata la pubblicazione dei periodici Casaviva, Men’s Health, Panorama Travel (poche settimane dopo l’ultimo restyling caricato sui conti ACI Mondadori), Ville e Giardini. Tutti i giornalisti, compresi quelli della consociata Mondadori-Rodale di Men’s Health, furono ricollocati all’interno delle altre redazioni.
L’11 febbraio 2014 toccò invece ad ACI-Mondadori: l’ACI salutò tutti e licenziò dal primo aprile tutti i giornalisti, un’azione commentata dal sindacato con uno scarno comunicato nel quale esprimeva “grande preoccupazione” e invocava “la tutela dell’occupazione dei colleghi coinvolti”, senza tuttavia fare nulla di concreto. Perché, sosteneva l’esecutivo, la priorità era tutta per “la vicenda di Visibilia. Più l’enorme mole di altri problemi”.
Il trasferimento degli sfortunati colleghi trasferiti dalla Santanché si sa come sia andato a finire, mentre per i giornalisti ACI-Mondadori non è stato fatto nulla per contrastare il licenziamento, nemmeno l’incontro con la FNSI con l’obiettivo di valutare le possibilità di un ricollocamento come previsto dal contratto.
La manovra era già stata anticipata, ma solo i giornalisti di ACI-Mondadori se ne erano resi conto, lo testimoniava la farsa del conteggio degli esuberi all’interno del Gruppo avviato nel mese di gennaio. Per la joint venture fu calcolato un esubero di cinque giornalisti su un totale di nove.
Alla fine del giro di consultazioni risultò un totale di 99 posti da tagliare, che scesero a 87 al momento della firma dell’accordo il 30 aprile. Il ridimensionamento fu annunciato come un successo, in realtà non era il risultato di una mediazione tra le parti, ma in buona parte al totale scorporo del personale della redazione ACI-Mondadori, vale a dire sette giornalisti in carico a quella società.
Da quel momento iniziò una serie di passaggi tra i vari centri di costo e al termine partirono sei lettere di licenziamento, tre indirizzate ai colleghi entrati a far parte in seguito della società, e altrettante ai quelli che erano in possesso della lettera “paracadute”. Lettera che peraltro fu considerata carta straccia da Mondadori, con una serie di motivazioni ridicole. I tre giornalisti non protetti furono liquidati con importi variabili in funzione della capacità di trattare dei singoli, e i rimanenti obbligati a scegliere la strada del tribunale. A seguito del prepensionamento di otto dipendenti, per effetto del decreto Lotti due dei tre sono effettivamente rientrati e uno è rimasto escluso e discriminato.
La strategia scelta dall’editore è semplice: calpestare la professionalità e la dignità, giocando sui rinvii concessi dai giudici con l’unico obiettivo di trovare una conciliazione che non è mai arrivata poiché non sono mai state fatte proposte concrete. L’unica è questa: «possiamo riassumerlo, per licenziarlo il giorno dopo. Così potrà contare su altri due anni di disoccupazione…».
Una dichiarazione che la dice lunga sul grado di preparazione e conoscenza delle normative e della situazione dello studio legale esterno che ha rimpiazzato l’ufficio interno dell’azienda. Gli avvocati non conoscono gli accordi, il contratto, la storia della società e hanno scelto la via del caos, con memorie difensive farcite di citazioni e sentenze che nulla hanno a che vedere con la causa che dovrebbe essere infulcrata sul mancato rispetto di un accordo scritto, esattamente come Mediaset lo chiede da Vivendi per il caso Premium. A lungo hanno giocato sull’equivoco delle responsabilità di Mondadori e di ACI-Mondadori, cercando giustificazioni assurde per smontare una garanzia che è chiara e sacrosanta, ribadendo lo stato di bisogno di un’azienda che ha saputo trasformare gli esuberi in un business.
In primo grado il Tribunale ha stabilito che la lettera ha valore e l’azienda non può sottrarsi all’impegno nemmeno appellandosi alle presunte difficoltà. Allo stesso tempo non ha ritenuto possibile la ricostituzione del rapporto di lavoro perché la lettera non precisa l’incarico e la mansione, dimenticando che si tratta di un impegno e non di un documento di assunzione, che sarebbe il passo successivo, visto che al momento della consegna non era possibile stabilire quando l’evento si sarebbe verificato.
Oggi la Corte d’Appello chiarirà la posizione, dopo avere ascoltato le ultime motivazioni delle parti.
Senza Bavaglio
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