Carlo Verna lascia la Rai “anima persa” e fa causa: “Un’azienda non azienda”

In una lettera aperta ai membri del consiglio di amministrazione, le amare considerazioni dell’ex presidente dell’Odg ed ex segretario Usigrai sullo stato di salute dell’autonomia e del pluralismo del servizio pubblico. Ma l’assalto della politica ha radici lontane (e bipartisan)

Speciale Per Senza Bavaglio
Andrea Di Quarto
Milano, 22 aprile 2024

Quando un professionista che ha legato, con successo, gran parte della propria vita professionale a “Mamma Rai” lascia l’Azienda, desta sempre un grande rammarico.

Non stiamo parlando di Fabio Fazio e neppure di Amadeus che, in quanto uomini di spettacolo, animano giustamente il mercato degli ingaggi televisivi, bensì di Carlo Verna. Redattore e inviato della Rai per 42 anni, dal 2006 al 2012 segretario del sindacato dei giornalisti (Rai Usigrai) e dal novembre 2017 al novembre 2021 presidente del consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Verna ha lavorato alla sede regionale della Campania occupandosi di sport, ma anche della conduzione del tg. È stato una delle voci di “Tutto il calcio minuto per minuto” e ha seguito per il Giornale Radio Rai campionati mondiali, europei e Olimpiadi di nuoto, pallanuoto, tuffi e nuoto sincronizzato. In televisione ha condotto la rubrica “C Siamo”, rotocalco del lunedì pomeriggio di Rai 3 dedicato alla serie C di calcio.

Verna si è congedato, con un anno di anticipo, inviando un’amara lettera aperta ai consiglieri di amministrazione. In essa annuncia una vertenza giudiziale e traccia un ritratto preoccupante di una Rai che definisce “non azienda” e “anima persa”, perché “le regole che ne disciplinano la governance disintegrano quello spirito che dovrebbe animare ogni comunità lavorativa”. In quella che è, sostanzialmente, una lettera di resa, Verna ammette di aver provato in tutti i modi, nei suoi incarichi di rappresentanza della categoria, “a trascinare l’opinione pubblica e l’agenda politica verso irrinunciabili istanze di autonomia, con qualche piccolo e purtroppo transitorio risultato”.

“Sappiate che al di là delle quattro conferenze di fine anno con Premier diversi e/o in rappresentanza di maggioranze politiche differenti, gestite come Presidente di tutti i giornalisti italiani, ho avuto rapporti costanti con politici di tutti gli schieramenti ma sempre con l’orgoglio di rappresentare un potere di controllo”, scrive Verna.

“Mai un gradino più in basso, anche e sempre per dare voce alla metà delle cittadine e dei cittadini che si considerano esclusi da una partecipazione autentica alla democrazia e si astengono quando si va alle urne. Forse si sentono non rispettati come non lo si sente chi in Rai non voglia accettare le attuali regole d’ingaggio, destinate a pesare negativamente anche sui rapporti umani”.

Verna affonda il dito su una piaga, quella della dipendenza della governance Rai dalla politica, evidenziata dalle cronache degli ultimi giorni: lo sciopero dei giornalisti di Radio Rai contro la cancellazione delle Redazione Sportiva e di Gr Parlamento, la modifica della par condicio (con i rappresentanti del governo che potranno parlare nei talk a tematica politica senza vincoli di tempo e senza contraddittorio, mentre Rainews24 trasmetterà senza mediazione giornalistica i comizi politici in versione integrale), il caso Scurati, la fuga in massa (o la cacciata) di personaggi non in linea (o sgraditi) alla nuova linea editoriale ribattezzata “Telemeloni”, ovvero “occupazione con truppe cammellate del servizio pubblico” – nelle parole dell’opposizione – o “liberazione dall’egemonia culturale della sinistra sulla tv di stato” – secondo gli esponenti dell’attuale maggioranza.

Il problema non è affatto nuovo. Cambia il vento, ma le lottizzazioni alla Rai no. Non è la prima volta – bensì la prassi – che con il cambio degli equilibri del Palazzo, scatti l’assalto alla diligenza Rai. La politica e il servizio pubblico vanno a braccetto e se la linea governativa cambia, questa si rispecchia inevitabilmente in una riforma (quasi sempre scellerata) della Tv di stato.

Una “prassi” apparsa in Italia con l’accensione del primo televisore: fin dal 1953 la gestione della tivù si era divisa tra la parte più “aziendale” della Rai, senza connotazioni politiche, e quella espressione del potere democristiano. Fino alla famigerata “lottizzazione”, nata nel 1975, con la riforma del servizio pubblico radiotelevisivo e il passaggio della Rai dal controllo governativo a quello parlamentare.

La spartizione dei canali radiotelevisivi su base elettorale alle diverse forze politiche, divise le reti tra Dc, Psi e Pci: nacquero TeleNusco, TeleCraxi e TeleKabul, ovvero una Rai 1 sotto l’ala della Democrazia Cristiana, Rai 2 sotto influenza del Partito Socialista Italiano e Rai 3 sotto quella del Partito Comunista. Da una programmazione giornalistica unica si passò alla creazione del Tg1 e del Tg2. Poi, si aggiunse un terzo canale, quattro anni più tardi, concepito per fornire un’informazione locale, regione per regione.

Cosa è cambiato negli anni? Pochissimo, anzi, il criterio di spartizione si è allargato a redazioni e apparato gestionale. Perché si parla sempre dei posti di dirigenza giornalistica e pochissimo di quell’enorme gestione di soldi pubblici che attraverso il canone finisce negli appalti delle tre reti. Perfino gli argomenti delle fiction rispondono ai venti di governo. La lottizzazione non si è fermata neppure con il ciclone Tangentopoli, che ha spazzato via i vecchi partiti lottizzatori, subito rimpiazzati dai nuovi, ansiosi di occupare i posti lasciati vuoti, continuando ad assistere alla prassi dell’influenza governativa sulla prima rete e la spartizione sulle altre: Rai 1 filogovernativa, Rai 2 in quota centrodestra e Rai 3 in quota centrosinistra. Indipendentemente che al governo ci fossero Berlusconi, Prodi, Amato, D’Alema, Renzi o Conte.

Un assalto continuo. Nel 2004, il governo del Cavaliere approvò la legge Gasparri sul riordino del servizio pubblico radiotelevisivo, affidando al Parlamento l’elezione di tutti e nove i consiglieri Rai e nel 2015 Matteo Renzi ha approvato una ulteriore riforma che ha sancito il ritorno dalla Rai del Parlamento (e dei partiti) alla Rai del governo. Una riforma che attribuisce a Palazzo Chigi e al ministero dell’Economia un’influenza sulla tv di Stato maggiore che in passato. Il ministero dell’Economia sceglie il capo azienda (un amministratore delegato, non un semplice direttore generale) che ha le mani libere sulle nomine (con l’eccezione dei direttori giornalistici) e sui contratti fino a 10 milioni.

E così, da vent’anni a questa parte è cresciuta una sempre maggiore – manifestata, ma mai concreta – insofferenza di fronte al meccanismo delle lottizzazioni. Per ogni cambio di governo, dall’opposizione si sollevava l’annosa questione con lo slogan “fuori i partiti dalla Rai”, mentre, gli stessi, continuavano a spartirsi le nomine del servizio pubblico. Una lottizzazione che è prassi quando è fatta in prima persona, ma che diventa intollerabile e antidemocratica quando viene attuata da altri.

Nella discussione infinita sulla spartizione di poltrone e posti di potere in Rai tra le forze politiche, le parti in causa sono sempre due, che si invertono in base ai risultati elettorali: chi prevale nelle urne occupa la tv pubblica in tutte le sue ramificazioni; chi viene bocciato dagli elettori, non potendo occupare la Rai, propone di riformarla “Modello Bbc”: “Basta politica nella tv pubblica!”, “Cambiamo tutto!”.

Tra due anni compirà cinquant’anni la riforma del 1975, quella che diede vita a TeleNusco, TeleCraxi e TeleKabul, e forse, a pensarci bene, in tutti questi anni qualcosa è cambiato davvero. Quella lottizzazione era gestita dai partiti anche all’insegna della qualità offerta dai loro protetti fatti assumere in Rai. Grazie alla scelta sulla base della qualità, la Rai è riuscita a sopravvivere ai vari tentativi di ridimensionamento messi in atto con l’arrivo di televisioni commerciali non sottoposte alla vigilanza parlamentare. I politici di allora avevano capito che la qualità rappresentava l’unica garanzia per il futuro dell’azienda. Oggi, che con l’assalto costante alla diligenza si è smesso di guardare alle competenze di chi si mette a libro paga, resta solo il Far West di una tv sempre meno pubblica e sempre meno di servizio. Che resterà tale fino a quando non si giungerà a un’autentica riforma, diretta soprattutto a restituire agli italiani la gestione di una delle più grandi aziende di comunicazione d’Europa, il quinto gruppo televisivo del continente, e soprattutto della più grande azienda culturale italiana.

Andrea Di Quarto
diquarto65@gmail.com

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Le iconografie di Senza Bavaglio sono di Valerio Boni

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