Speciale per Senza Bavaglio
Valerio Boni
Milano, 20 aprile 2022
Nell’editoria, come nel mestiere più antico del mondo, le cosiddette marchette esistono da sempre. Nonostante campagne multimilionarie, sulla carta stampata una pubblicità tabellare passa spesso inosservata anche se il lettore rimane su quella coppia di pagine mentre legge con interesse un articolo avvincente. Può trattarsi di esteri, di cronaca nera o rosa, oppure di sport, non importa. Ed è per questo motivo che, non certo da oggi, sono gli stessi investitori a chiedere di inserire tra le pagine articoli confezionati su misura per apparire come il frutto di un lavoro redazionale.
Per anni il confine tra gli editori più seri, che non sono necessariamente quelli che possono esibire i fatturati più alti, e quelli più spregiudicati è stato rappresentato dall’inserimento della dicitura “informazione pubblicitaria” in posizione ben visibile. Con l’impegno a non utilizzare lo stesso progetto grafico della testata per l’impaginazione dell’articolo in appoggio al contratto pubblicitario. Simile sì, ma non uguale, nella scelta di font e stili.
I tempi cambiano e inesorabilmente anche il modo di gestire il rapporto tra informazione e pubblicità. E il recente episodio di Corriere Economia lo testimonia in modo inequivocabile. Un’inserzione dedicata a una gelatiera compare a una sola pagina di distanza da un pezzo pubblicato al piede, dedicato alle qualità dello stesso elettrodomestico e ai programmi dell’azienda che lo produce. Il tutto inserito nelle classiche gabbie del quotidiano milanese, senza la presenza di un minimo avviso per il lettore, solo la dicitura © Riproduzione Riservata.
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Ormai l’ultimo baluardo a difesa del lettore, di non inserire pubblicità e marchetta una a fianco all’altra, vacilla pericolosamente. I casi di estrema vicinanza si moltiplicano, e non può essere un caso, al punto che viene da pensare che la distanza tra le due non sia più casuale, e possa essere inserita in un vero e proprio listino che fissa i prezzi in funzione della distanza.
Tutto ciò dipende indubbiamente dalla necessità di compensare le entrate che non arrivano più dalle edicole, ma anche della maggiore spregiudicatezza che deriva dalle contaminazioni del mondo social.
Vigilare oggi sul fenomeno è una missione impossibile, anche perché non lo è stato fatto quando c’erano le condizioni per farlo. Una quindicina di anni fa scrissi una lettera di autodenuncia all’Ordine perché la concessionaria pubblicitaria Mondadori aveva chiuso un contratto con un produttore di pneumatici per la realizzazione di interviste a vari personaggi su temi indicati dalla stessa azienda. I servizi erano pagati e dovevano essere visionati dal marketing della Casa prima della pubblicazione; e gli impaginati erano del tutto integrati con il progetto grafico della rivista. La segnalazione cadde nel nulla perché le interviste risultavano realizzate comunque con contenuti giornalistici e fornivano informazioni ai lettori.
L’inversione di rotta appare irrealizzabile e a questo punto non resta che guardare provocatoriamente all’opportunità che questa situazione può offrire. Basterebbe imporre, come fanno alcuni editori, il divieto ai giornalisti assunti di produrre contenuti pubbliredazionali, sotto forma di articoli o di inserti speciali. Una scelta che convoglierebbe un lavoro, che è comunque da produrre, verso i freelance, abbattendo falsi limiti dettati dalla deontologia, con una professionalità tutta da costruire e soprattutto senza imbrogliare chi legge.
Per i precari, che non sono giornalisti di serie B, rappresenterebbe una boccata d’ossigeno, visto che i budget sono sensibilmente diversi. Se un articolo è pagato poche decine di euro, lo stesso lavoro in versione “marchetta” vale molto di più. Almeno dieci o venti volte di più.
Valerio Boni
valeboni2302@gmail.com
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