Roma, 5 aprile 2020
Esattamente come avvenuto per gli altri lavoratori precari, autonomi, intermittenti, anche per i giornalisti free lance il virus è stata la cartina di tornasole che ha ha fatto emergere le differenze, le disparità, l’assoluta insensatezza di un mercato del lavoro basato su pochi dipendenti stabili attorniati da una miriade di collaboratori sottopagati e sfruttati. Una divaricazione che nel mondo del giornalismo è ancora più marcata che negli altri settori, perché non esiste segmento lavorativo dove i precari siano l’assoluta maggioranza dell’intera popolazione lavorativa.
Se già prima i freelance italiani sopravvivevano a stento, chiusi nelle loro case in attesa di una chiamata, di una proposta finalmente accettata, di un pagamento aspettato da mesi, ora per molti di loro alla cronica mancanza di tutele si aggiunge anche la mancanza delle magre entrate legati a pezzi pagati dieci, trenta, cento euro, comunque sempre poco rispetto alla quantità di ore impiegate e alla qualità richiesta. Il coronavirus è stato un tsunami anche nelle redazioni, costringendole ad organizzarsi, proprio come gli ospedali, in assetto di guerra. E questo è senza dubbio comprensibile, peccato che, proprio come sempre in emergenza, ad essere tagliati fuori sono stati soprattutto loro, i collaboratori freelance.
Alcuni di loro, per la verità, hanno continuato a scrivere come prima. Ma molti, che si occupano di altri temi diversi dal virus, no. L’organizzazione dei giornali ha contribuito a compattare i dipendenti, che sono stati sottoposti a dura pressione, ma almeno hanno avuto in cambio la sensazione di lavorare a qualcosa di utile e importante, di essere parte di una squadra, per non dire di una comunità. Ciò che noi freelance abbiamo sempre desiderato, senza averlo.
Il punto, anche in questo frangente, è sempre la comunicazione: anche in una emergenza, gli interni avrebbero dovuto comunicare agli esterni cosa stava succedendo, il motivo dei cambiamenti, perché eventualmente i freelance non sarebbero stati più chiamati. Invece molti, come sempre, non sono stati avvisati di nulla. Semplicemente, non sono stati più chiamati e quando hanno chiesto lumi la risposta è stata scocciata, come se il freelance non capisse l’emergenza. Simili alle badanti, alle signore delle pulizie, ma pagati molto meno, anche i freelance sono rimasti casa senza lavoro. E senza comunicazioni.
Per fortuna, non siamo stati del tutto abbandonati. E questo perché il governo ha fortunatamente intuito e riconosciuto l’esistenza di milioni di lavoratori autonomi, precari, intermittenti. Inizialmente, per la verità, sembrava che questo aiuto non sarebbe stato riservato agli iscritti agli ordini, con relativo grande sconcerto. Poi, invece, il governo ha incluso anche loro. E giustamente, perché non si può pensare di tenere scoperti lavoratori il cui ordine magari non fa nulla. E così i free lance hanno potuto chiedere il contributo dei 600 euro, con l’Inpgi che ha fatto da mediatore.
E l’Inpgi, appunto? Prima della comunicazione di inclusione dei lavoratori degli ordini nel bonus autonomi, aveva preso una iniziativa finanziata con i soldi delle casse dell’istituto. In parte lodevole, per la carità, però sbagliata nell’impianto e con criteri di esclusione inverosimili. Mi spiego meglio: mentre il governo ha messo come paletto per l’inclusione unicamente il non raggiungere il tetto dei 35.000 euro, chiedendo solo a chi è sopra di dimostrare la perdita effettiva di un terzo del reddito, l’Inpgi lo ha chiesto a tutti. Non sbagliato in sé, se non che il trimestre di riferimento che va va comparato a quello dell’anno precedente per verificare cali di reddito è quello che va da marzo a maggio, con riferimento ai soldi ricevuti durante quel trimestre. Peccato che – l’Inpgi dovrebbe saperlo! – i freelance non sono mai pagati mese per mese, ma con mesi di distanza, il che significa che sarà difficile per qualunque collaboratore dimostrare un calo di reddito, perché magari ad aprile arrivano i bonifici di febbraio o gennaio.
Il secondo errore clamoroso è stato quello di escludere coloro che avevano beneficiato già della Casagit gratuita per i freelance. Assurdo: è ovvio che nessun lavoratore può mangiare con il rimborso di un’ecografia perché quei soldi li ha spesi. Ma anche offensivo: come a dire, tu hai già ricevuto l’assicurazione medica, non puoi pretendere di più. Certo i soldi, 42 milioni, erano già impegnati e quindi non necessitavano di approvazione dei ministeri vigilanti, ma forse sarebbe stato meglio dare meno a tutti. Di sicuro, il governo ha fatto meglio del nostro Istituto. Anche Stampa Romana, in una nota, ha denunciato l’incongruenza.
Si tratta, ovviamente, di bonus una tantum che non risolve il problema strutturale che la crisi, proprio come tutte le altre crisi, ha messo in luce. Per fortuna, il mondo dei giornali non ha subito il tracollo che sarebbe seguito alla chiusura delle edicole, ma questo non si traduce in maggiori fondi per i freelance, che aspettano ancora che si stabiliscano le tariffe per l’equo compenso che gli editori sbandierano nei loro articoli sullo sfruttamento salvo non applicarle ai proprio lavoratori autonomi.
Lavoratori senza tutele, senza ferie, senza pensione, isolati, emarginati eppure fondamentali perché un giornale possa chiudere. Una situazione che dopo il virus qualcuno dovrà avere il coraggio di prendere in mano. Magari sarà un esponente del governo, più che del sindacato dei giornalisti. Ormai da quest’ultimo ii freelance hanno imparato a non aspettarsi nulla. Bastii pensare che si è ricordato dei precari solo quando, all’improvviso, ha realizzato che presto non ci saranno lavoratori per pagare le pensioni. Un’altra storia, questa, tutta – davvero – da piangere.
La Cronista Furiosa
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