Le “marchette” in prima pagina non turbano il sonno (profondo) dell’Ordine

Il limite indefinito tra pubblicità e informazione senza argine quello che da anni inquina e contribuisce ad abbattere la reputazione della stampa nazionale, ormai ai minimi storici per autorevolezza e credibilità

Speciale per Senza Bavaglio
Rosaria Federico
Salerno, 8 gennaio 2024

Siete pronti per un viaggio intorno al mondo su una nave da crociera? Oppure siete riusciti ad accaparrarvi il primo pacco dei nuovi ‘fantasmagorici’ (si fa per dire) biscotti della più grande multinazionale italiana del cioccolato?

Avete acquistato la borsa di quel brand di lusso made in Italy. E ai supermercati della pesca e della noce, lì ci siete stati? E magari avete acquistato quei rotoloni ‘reali’ di carta igienica che sono diventati l’emblema del sogno americano.

Vi sembra già troppo questo elenco, immagino. E invece sono solo piccoli esempi delle marchette a gogò che popolano la nostra stampa e i quotidiani nazionali ogni giorno.

Un limite indefinito tra pubblicità e informazione senza argine quello che da anni inquina e contribuisce ad abbattere la reputazione della stampa nazionale, ormai ai minimi storici per autorevolezza e credibilità.

Da mesi con Senza Bavaglio proviamo a monitorare il fenomeno. La lotta è impari.

A volte l’insidia si nasconde in un’intervista, spesso la marchetta (termine preso in prestito dalle case di tolleranza, la marchetta era il gettone che le tenutarie pagavano alle ragazze al termine delle prestazioni) è così ‘pacchiana’ e evidente che il nome del marchio da pubblicizzare è esposto in foto o nel titolo. Allora non resta che alzare le braccia e arrendersi. Almeno all’evidenza.

Il fenomeno è così diffuso che i primi a fare mea culpa sono gli stessi giornalisti delle testate coinvolte. Talmente tartassati e impotenti, succubi si potrebbe dire, che sono stati stati costretti a far scendere in campo i comitati di redazione.

È capitato con La Repubblica ma anche al Corriere della sera ci hanno provato.

A novembre scorso il Cdr de La Repubblica ha votato un documento che più esplicito non poteva essere, un mea culpa, un’autodenuncia.“Le giornaliste e i giornalisti di “Repubblica”, per tramite del Comitato di redazione, da tempo denunciano alla direzione e all’azienda numerosi episodi nei quali sulle nostre varie piattaforme sono comparsi redazionali mascherati da articoli, quando non veri e propri articoli nei quali sono indicati elenchi di prodotti in vendita, con relativi prezzi e link ai portali di acquisto generalisti o direttamente ai siti delle aziende. Sono stati segnalati anche diversi solleciti arrivati via mail o attraverso richieste dei capistruttura dalla concessionaria di pubblicità per avere articoli dedicati a inserzionisti pubblicitari o sponsor di eventi.

Abbiamo a più riprese chiesto che gli articoli dedicati a inserzionisti, sponsor o prodotti fossero chiaramente resi riconoscibili e distinguibili dalle notizie con la parola “redazionale” o “articolo sponsorizzato”, ma restano confusioni e commistioni”. Ci sono andati giù duri contro il direttore – primo garante della deontologia professionale nel rispetto dell’etica e delle regole – e contro l’agenzia di pubblicità.

“Per questo chiediamo alla direzione di garantire il rispetto della deontologia professionale – scrive il Cdr – norme menzionate anche nel Contratto nazionale di lavoro giornalistico che vincola tutte e tutti nel nostro operato quotidiano (articolo 44: “i messaggi pubblicitari devono essere chiaramente individuabili come tali e quindi distinti, anche attraverso apposita indicazione, dai testi giornalistici (….) I direttori sono garanti della correttezza e della qualità dell’informazione anche per quanto attiene il rapporto tra testo e pubblicità”). Altresì vogliamo sottoscrivere una carta che ribadisca queste chiare e semplici regole, affinché: non vengano dimenticate e forniscano un altro strumento di difesa della professionalità di ognuna o ognuno di noi, assunti o collaboratori di “Repubblica”, di fronte a possibili pressioni di varia natura; venga preservata la qualità giornalistica e l’indipendenza di “Repubblica”, unica e sola missione sin dalla fondazione del quotidiano e garanzia di tutela e salvaguardia dello stesso”.

Nonostante esista già un codice etico nazionale da rispettare per direttori e giornalisti, il Cdr di Repubblica ne ha votato un altro interno al quale attenersi. L’atto di autodenuncia che avrebbe dovuto far sollevare l’Ordine nazionale, li consigli di disciplina, la Federazione nazionale della stampa, e addirittura l’Antitrust (a giudicare da quello che è avvenuto dopo e fino ai nostri giorni), è servito a ben poco. A nulla, per la verità.

A giugno del 2021 anche al Corriere della sera il Cdr sollevò il caso della commistione tra pubblicità e informazione. In quel caso il testimonial di un noto marchio di abbigliamento era il ct della nazionale, Roberto Mancini. Intervista con richiamo in prima pagina e nei giorni successivi la pubblicità vera e propria in bella mostra sul giornale. Il cdr dei giornalisti di via Solferino non si fece passare la mosca per il naso e ci andò giù duro con una lettera al direttore per chiedere di ‘vigilare’. “Caro direttore -diceva il Cdr- ci dispiace dover intervenire per segnalare l’ennesimo caso di invadenza del marketing sulle pagine del nostro giornale. Ieri, 10 giugno, sulle cronache nazionali del Corriere è stata pubblicata una pagina sul commissario tecnico della Nazionale Roberto Mancini che è palesemente un’inserzione pubblicitaria, nella quale viene con ridondanza messo in evidenza un noto marchio di moda, senza segnalarla come tale ai lettori. Che si tratti di pubblicità lo conferma l’inserzione, questa chiaramente pubblicata come tale, uscita oggi, con foto sempre di Mancini che indossa un capo del medesimo marchio di moda”.

Ma che effetto sortì quella levata di scudi e quell’accusa diretta? Nessuna. E la vigilanza tanta auspicata non c’è mai stata, a giudicare dal dopo. L’alternanza, l’anticipazione tra pubblicità acclarata e forme occulte ormai è un must del giornale dell’editore Cairo.

La forma privilegiata di pubblicità occulta per i giornalisti di via Solferino rimane quella dell’intervista ‘esclusiva’ nella quale infilare questo o quel prodotto. Si direbbe che, visto il fenomeno, i giornali dovrebbero fare affari d’oro in termini di pubblicità veicolate dalle cosiddette ‘marchette. E invece a giudicare dai dati qualcosa non va.

Nel 2023 appena concluso (i dati sono relativi al periodo gennaio-novembre) si registra un calo di fatturato nelle inserzioni pubblicitarie rispetto allo stesso periodo del 2022. Il fatturato pubblicitario del mezzo stampa in generale registra un decremento del -3,2%, in particolare i quotidiani nel loro complesso registrano un andamento a fatturato del -4,9%. Le singole tipologie segnano rispettivamente: commerciale nazionale -3,9%;commerciale locale -2,7%, Legale -2,9%, finanziaria ha segnato -16,4%, Classified (annunci di piccole dimensioni -15,2% (Fonte Osservatorio Stampa FCP).

Il dato che contrasta con quello che è l’andamento su stampa periodica e quotidiani dove la notizia è inversamente proporzionale alla ‘marchetta’ e dove, si intuisce, regna sovrana la metodologia di accaparramento del cliente pubblicitario inventata (e non è un merito) da Marcello Dell’Utri, al vertice per anni di Pubblitalia 80. Una metodologia che allora, a metà degli anni ’80, fece scandalo quando la stilista Krizia denunciò pubblicamente le proposte di giornalisti e direttori che in cambio di articoli e interviste proponevano l’acquisto di pagine di ‘vera pubblicità’ . Oggi, una denuncia pubblica di tal genere è impensabile!

Visto l’andazzo e il confronto tra i dati, una domanda sorge spontanea, avrebbe detto Antonio Lubrano.

Se il fatturato delle inserzioni pubblicitarie è in calo quale sarà mai, oggi, la contropartita economica della ‘marchetta’ senza ritegno? Alla domanda spontanea corrisponde un dubbio spontaneo che investe, neanche a dirlo, editori, direttori e giornalisti iper protagonisti del circo mediatico e economico. Tutti ben saldi alle proprie poltrone anche se la maggior parte ha nel proprio palmares solo disastri.

L’importante è accrescere il proprio prestigio personale. E il rispetto per il lettore, dove lo mettiamo? Il lettore ormai è un’entità astratta che non interessa più, è scomparso dal dibattito (blando) sulle storture e la deriva del giornalismo italiano.

Se il sistema è distorto qualcosa non funziona. E se neanche i giornalisti, insieme all’Ordine e alla Federazione riescono a mettere un argine al fenomeno, qualcun altro dovrebbe avere il dovere di mettere ordine nella giungla pubblicitaria, mascherata da lotta alla sopravvivenza per giornalisti e giornali in crisi di vendita e identità.

E veniamo alle noti dolenti. Il caso Ferragni- pandoro ha rispolverato dirompente la questione morale o meglio la commistione tra profitto e beneficenza, in prima linea ovviamente esperti, giornalisti, tuttologi del web e haters (quelli non mancano mai).

Italia divisa tra colpevolisti e innocentisti. Paginate di giornali e giornalisti pronti a indignarsi per poi osannare l’eroina del web e del marketing quando, finito il periodo di penitenza, torna di nuovo in pista. Eppure nessuno si agita più di tanto quando i lettori ogni giorno vengono circuiti con la pubblicità ingannevole spacciata per interviste, articoli di innovazione, sogni di viaggi intorno al mondo e finanche biscottini che dovranno andare a ruba nei supermercati perché la mancanza di prodotto crei dipendenza.

Dove sono i consigli di disciplina che sanzionano i direttori e i giornalisti e dov’è finita l’antitrust? Si perdono nella notte dei tempi – all’inizio degli anni 2000 – le ultime sanzioni inflitte dall’autorità che vigila sulla concorrenza e sul mercato. L’ultima levata di scudi è quella dello scorso anno, avanzata dal Codacons, contro la Rai e Bruno Vespa per l’evento pubblicitario organizzato nella sua masseria in Puglia. Tutto il resto è silenzio assoluto. C’è un Ordine che si indigna per i progetti del Governo sulla stretta a intercettazioni e ordinanze e non scende in campo per le elucubrazioni censorie del presidente della commissione cultura di Fld, Federico Mollicone, su cosa la stampa debba scrivere.

Un articolo amplificato da Repubblica senza che la controparte (ordine e giornalisti) rispondesse in contemporanea, senza un cenno critico.

Invece che di bavaglio, l’Ordine nazionale dovrebbe riflettere sull’autobavaglio dei giornalisti, imprigionati in una crisi economica, deontologica, in cui un contratto nazionale fermo a sette anni fa è solo l’ennesimo problema di un mestiere in cui si sopravvive senza pensare alle prospettive e in cui il giornalismo, quello vero, è solo un ricordo atavico. D’altronde basta fare un giro sul web per gli annunci di lavoro nel settore, l’1% delle offerte di lavoro riguarda giornalisti (stagisti giovani perlopiù senza esperienza, dunque sottopagati), il 99% delle aziende è invece alla ricerca di social media manager, addetti stampa e esperti di intelligenza artificiale. Tradotto in termini economici esperti in ‘marchette’ e non in notizie. Volendo parafrasare il motto del New York Times, ‘All the news that’s fit to print’ (‘tutte le notizie che vale la pena di stampare’) in Italia si traduce in ‘tutte le marchette che portano soldi’. E’ anche questo l’effetto della transizione digitale, dell’intelligenza artificiale e della bulimia dei social? Può darsi, ma non solo.

Illuminante su quale dovrebbe essere l’argine a questa giungla, in Italia e non solo, è l’intervista al Corriere della Sera di Paolo Benanti, teologo del Terzo ordine di San Francesco, professore alla Pontificia Università Gregoriana, consigliere di papa Francesco sui temi dell’intelligenza artificiale e membro del Comitato sull’Ai dell’Onu, nuovo presidente della Commissione governativa sull’Ai per l’informazione.

Benanti pone al centro del dibattito su questo grande tema ‘la valorizzazione della professione dei giornalisti figure di garanzia nel processo democratico”. Poi aggiunge: “Mi è sempre piaciuto il motto del Washington Post: ‘La democrazia muore nelle tenebre’. Nel giornalismo c’è una forte missione sociale che l’automazione dell’informazione porterebbe all’estinzione. Il secondo tema è la sostenibilità della professione: chiaramente l’automazione ha un impatto sull’industria dell’editoria minandola dal punto di vista economico. Ecco un altro effetto che può rendere problematico il prosieguo di questo importante ruolo del giornalismo. Il terzo tema è la comparsa dei nuovi grandi player che in alcuni casi sono di fatto editori ma che in questo momento non ne hanno la responsabilità”.

Rosaria Federico
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Le iconografie di Senza Bavaglio sono di Valerio Boni

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