Vanetti: certezza di compensi dignitosi, con i collaboratori occorre cambiare andazzo

Speciale per Senza Bavaglio
Flavio Vanetti
Milano, 24 novembre 2022

Ho cominciato questo mestiere nel lontano 1978 – studente liceale dell’ultimo anno – nel giornale della mia città, La Prealpina di Varese. Collaboratore inizialmente per lo sport, ma ben presto il raggio d’azione s’è allargato alla cronaca, alla “nera”, alla “giudiziaria”. Compenso: 10 lire per ogni riga pubblicata. Il ragioniere delegato alla smarcatura degli articoli aveva un righello con cui le contava. Immancabilmente, ogni mese, c’erano litigate perché fregava sui giri di colonna e il righino in testa non valeva mai se non superava la metà.

Un bel giorno noi collaboratori e i corrispondenti dalla provincia (mal contati eravamo una quarantina, forse anche di più) ci arrabbiammo e decidemmo di procedere con un’azione sindacale supportata dalla minaccia di sciopero.

Se si fosse arrivati al passo estremo, anche calcolando una discreta quota di crumiri (non tutti erano poi così convinti e molti erano stati chiamati dalla direzione e blanditi), il giornale difficilmente ce l’avrebbe fatta ad andare in edicola.

Dopo l’assemblea plenaria dei peones – alla quale l’afflusso fu notevole – ci accordarono l’aumento: 30 lire alla riga, più una serie di altre migliorie, ad esempio 5000 lire extra fisse per pezzo lungo o “importante” e 25 mila lire (30 mila lire alla domenica) per la giornata in redazione a sostituire uno o più redattori di corta o in ferie.

Ripensando oggi, 44 anni dopo, a quei giorni, mi vengono da dire due cose: la questione dell’equo compenso si trascina da sempre ed è giusto affrontarla con decisione.

Il guaio è che non è più materia seguita e “galoppata” dai Cdr, troppo preoccupati di non disturbare il manovratore, ovvero editori che reputo inqualificabili. La seconda riflessione è che un giornale quale La Prealpina (e più in generale quelli locali) era magari tirchio e marrano – si sperava che la gavetta culminasse nell’assunzione, ma quest’ultima era merce rarissima: per fortuna nel mio caso si aprì, nel 1982, l’opportunità di entrare alla Gazzetta dello Sport –, però aveva il pregio di essere “open doors” per i giovani.

A dirla tutta, senza peraltro rinnegare l’azione sindacale alla quale avevo partecipato, essere pagati quattro-soldi-quattro era in parte giusto perché il giornale metteva sul piatto della bilancia l’occasione per un tirocinio completo: scrivere, lavorare in redazione, andare in tipografia a impaginare, gestire situazioni quali i controlli con polizia, carabinieri, vigili del fuoco, pronto soccorso, affrontare turni notturni. Insomma, eravamo rigorosamente abusivi, ma sul “marciapiede” giusto per imparare.

Quel sistema andava forse solo aggiustato, magari selezionando quelli più dotati e appassionati e avviarli in un percorso di gavetta dopo il quale si sarebbe vista la luce. Invece così non è stato e i giornali – a cominciare da quelli grandi che a loro volta avevano le porte aperte (ma non così aperte come quelli di provincia) – si sono chiusi a riccio di fronte all’aumento dei ricorsi in tribunale.

Pure quelli erano il logico approdo della mancanza di un sistema equilibrato e consapevole. Da lì in poi è stato solo un passare attraverso scuole professionali, pratica che ha comunque ridotto drasticamente le opportunità per le nuove leve.

Oggi assistiamo a un fenomeno deprimente e mi limito a riportare quanto noto nel settore sportivo, quello al quale continuo ancora a essere vicino: i giovani di oggi, aspiranti giornalisti, si accontentano – pur di provare a coltivare il loro sogno – di compensi che al confronto i miei di 40 anni fa erano fior di stipendi.

E non raramente alcuni di loro, per seguire un evento in trasferta, pagano di tasca propria (senza che il ricavato da quanto scrivono compensi le spese). Il tutto avviene nell’indifferenza non solo degli editori, ma anche dei capi desk. I quali spesso sono i primi alleati del padrone (ma non dovrebbero esserlo dei colleghi?) e ricattano: se ti va bene, è così; sennò usa la Tv per lavorare, oppure lascia perdere. Per un soldato che rinuncia, se ne trova di sicuro un altro più malleabile…

Ecco, io credo che nel giornalismo di oggi serva soprattutto la voglia di cambiare un andazzo che sta mandando alla rottamazione la nostra professione, già insidiata dalla comunicazione via social, sulla quale preferisco non esprimermi.

Definire fasce adeguate di compenso è il minimo della logica – ma sembra che non sia né facile né possibile arrivarci –, però allo stesso tempo occorre che le redazioni, con i giusti paletti e con patti chiari, tornino a essere quelle botteghe di formazione che da tempo non sono più.

Flavio Vanetti
Candidato nelle liste Senza Bavaglio alle elezioni della ALG e della FNSI
FVanetti@rcs.it

Classe 1959, varesino, ha debuttato nel 1978 a La Prealpina. Nel 1982 il passaggio alla Gazzetta dello Sport, quindi dal 1989 a fine 2017 ha lavorato al Corriere della Sera, giornale al quale collabora tuttora. Ha raccontato, tra l’altro, 15 edizioni dei Giochi olimpici e la F1 per 20 anni.

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