Giornalisti autonomi in mano a caporali, editori e sindacato, senza scrupoli

Speciale Per Senza Bavaglio
Francesco Petruzzelli
Bari, 3 aprile 2021

«I carabinieri hanno accertato la presenza di 45 lavoratori, soprattutto africani e albanesi, tutti regolarmente assunti ma obbligati a lavorare in condizioni di sfruttamento, con salari orari dai 3,5 ai 4 euro i primi, fino ai 6 euro gli albanesi. Alcuni erano costretti a vivere in roulotte o in alloggi di fortuna privi di servizi igienici, in condizioni di profondo degrado e “dovevano anche versare 15 euro al mese per questa sorta di dormitori”, fanno sapere gli investigatori. I braccianti venivano reclutati sia nel ghetto di Borgo Mezzanone, l’insediamento abusivo di migranti a pochi chilometri da Foggia, sia nell’ex centrale del latte di via Manfredonia, alla periferia della città».

Questo è un passaggio dei tre arresti – i primi di una lunga serie – eseguiti nel febbraio del 2020 a Borgo Mezzanone, il ghetto, la baraccopoli della Puglia. Anzi, chiamiamola con il suo vero nome: la vergogna d’Italia. Cumuli di lamiere e di teloni dove caporali senza scrupoli reclutano migranti, in maggior parte africani, nella raccolta dei pomodori. Per molte ore, per pochi spiccioli. 

Perché iniziare da qui? In fondo anche nella professione giornalistica siamo un po’ tutti i ragazzi e le ragazze di Borgo Mezzanone. Giornaliste e giornalisti precari che, per 12 ore di lavoro al giorno, portano a casa compensi dai 5 ai 15 euro. Meno di un bracciante agricolo. Certo, non lavorano sotto il sole, a 40 gradi, non sono costretti a urinare in fosse comuni. Hanno l’acqua calda, hanno un comodo materasso (grazie a mamma e papà con cui vivono). Ma anche loro, come i migranti, ogni giorno barattano la dignità.

I pomodori sulle nostre tavole, i giornali nelle nostre case, le notizie sul nostro smartphone. Dietro ciascun prodotto c’è un migrante o un giornalista precario sfruttato. Lo sanno i caporali, lo sanno gli editori. Lo sanno le istituzioni, lo sa tutto il sistema dell’informazione. I ragazzi di Borgo Mezzanone hanno fatto fuoco e fiamme per ribellarsi; hanno bruciato le loro baracche per non spegnere l’ultimo sussulto di dignità.

E noi? Che cosa abbiamo fatto per ribellarci in tutti questi anni di taciti silenzi e di mortificanti compromessi? Non abbiamo acceso un solo riflettore per far luce sul caporalato dell’informazione, accettando, miserrimi, l’eterno compromesso al ribasso “ti pago poco, ma ti faccio girare la firma”. Già, la dignità svenduta in cambio di una manciata di vanità. Un orgasmo strozzato e soffocato davanti al proprio nome e cognome. Un po’ come quelle vecchie glorie del cinema che per rientrare sulle scene accettano anche una semplice comparsata.

Ma il retrogusto è amaro, ha il sapore sgradevole della sconfitta, della resa, della perdita di se stessi. Siamo da sempre il megafono delle vertenze altrui, ma non lo siamo stati mai delle nostre. Abbiamo sempre raccontato gli orrori, le angherie, i soprusi del vasto mondo della precarietà. Ma non abbiamo mai voluto e potuto guardare in casa nostra. Già, abbiamo avuto paura di lavare quei panni luridi e di esporli alla luce alla luce del sole, dei riflettori e di noi stessi. Perché quando ti minano l’autostima, ti fanno anche credere che quella è un’opportunità. Sorridere e ringraziare.

E alla fine si finisce con il convincersi di valere veramente 5 euro. Il prezzo di ognuno di noi è quello che ci diamo o che ci facciamo dare. Come le vecchie prostitute, buttate ancora sulla strada dai protettori, ma consapevoli di dover dire grazie al pappone che la protegge ancora e al cliente che le  darà l’emozione di essere ancora cercata, che le darà quell’unica possibilità, quell’ultimo soffio, stanco e goffo, di vita. Pur di non perdere quei 100-300 euro al mese. Proprio come noi.   

Oggi essere giornalista precario in Puglia e in Italia significa anche questo. Dalle 10-11 del mattino parte la batteria di telefonate dei capi e dei redattori garantiti in un continuo crescendo: “oggi che hai?”, “stiamo senza notizie e con mezza redazione assente, cosa possiamo fare?”, “chiama subito questo qui”, “aspetta, lascia perdere, verifica questa cosa qui”, “sono tremila battute con foto, ma mi raccomando fai presto che me ne voglio tornare subito a casa”.

E il tempo scorre e il precario gira come una trottola: esce, verifica, bussa alle porte, cerca le carte, incontra le fonti, chiama, contatta, annota, suda, va in ansia e intorno alle ore 17 (nel migliore dei casi) inizia a scrivere. Quelle tremila, quattromila battute pagate 15 euro, ma anche 5. Molto più spesso 5. Cinque luridi euro, cinque come le dita di una mano che ha appena schiaffeggiato la tua dignità, il tuo amor proprio, la tua anima.

Questo è il guadagno alla fine di una lunga giornata, con la ricarica del telefono tuo, il computer tuo, la stanchezza tua. Oggi il precario, in piena pandemia, rischia più di tutti. Le redazioni in smart working e lui buttato nella mischia, lanciato per strada a caccia di storie e di notizie.  Perché il virus non attacca i precari. Perché i precari sono immortali, non hanno diritto ad ammalarsi. E se si ammalano problemi loro, alla fine del mese non avranno neanche quei 100 euro.

Al precario viene anche chiesto di lavorare nei giorni rossi, mentre i garantiti se ne stanno in redazione beatamente comodi ai loro posti di comando per non perdere il super festivo. E la telefonata che arriva è sempre la stessa: “Che c’hai oggi?”. Ai precari viene anche chiesto di mandare qualche notizia (gratis) per il web. Ironia della sorte, quello stesso web a letture limitate per il quale ora l’editore chiede un abbonamento ai lettori. Vende un prodotto online confezionato anche da precari senza alcun compenso. 

Ma essere precari vuol dire anche finire nel mirino delle minacce, delle querele temerarie, dei potenti. Per un titolo sbagliato, per una notizia non gradita, i potenti non urleranno mai contro il direttore o contro il capo redattore. Il potente minaccerà sempre il pesce piccolo. È il precariato, bellezza! E allora, arriva quel giorno in cui ti chiedi se ne valga davvero la pena continuare così, senza una prospettiva, senza un futuro, senza un domani anche solo da immaginare. Perché una vita non la puoi neanche immaginare con 300 euro al mese.

E alla fine, quando hai perso te stesso e non ti riconosci più, quando l’amarezza diventa più forte della passione, quando la sfiducia prevale sul sogno, allora la fai la scelta. Sei obbligato a farla. E ti chiedi se abbia un senso continuare a girare su questa giostra che, esattamente come i trenini di Jep Gambardella, non porta da nessuna parte. Se non all’inferno.

Francesco Petruzzelli
franzpetruzzelli@gmail.com

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