Speciale pr Senza Bavaglio
Antonio Giordano
Catania, 4 gennaio 2020
Mi hanno chiesto: racconta la tua storia, facciamo sapere quanto i giornalisti freelance siano pagati poco. Già siamo nel territorio degli eufemismi, perché la verità è che siamo pagati al limite della sussistenza, con dei trattamenti che sarebbero ridicoli se dietro non ci fosse la disperazione di una vita senza prospettive.
Ma negli ultimi giorni, sia sui social network che parlando con persone in carne e ossa, mi sono reso conto di quanto questi discorsi sui giornalisti precari siano rimasti una cosa di setta, fuori dalla copertura radar dell’opinione pubblica. Dici che sei un giornalista e che guadagni poco e la gente ti guarda con gli occhi sbarrati. Ma come? Siete giornalisti, pilotate l’opinione pubblica, se vi svegliate male un mattino potete scrivere trenta righe e tutti inizieranno a parlarne. Com’è possibile che lo facciate per un tozzo di pane?
Già. Come mai? E’ la cosa che mi sento chiedere più spesso quando ne parlo. Come se non bastasse la fatica. A volte proprio fatica fisica. Chi si immagina il mestiere di giornalista pensa a uno con la pipa in bocca che scrive su una vecchia Lettera 22 tutto il giorno, ma non pensa mai alle nottate a prendere freddo, ai chilometri macinati a piedi e in macchina, a tutto il movimento che questa professione comporta. Le persone ti guardano come se tutti i giornalisti fossero Mentana o Ezio Mauro. Non è così.
La mia storia somiglia a quella di molti altri, non ha nulla di particolare. Ho iniziato a pubblicare sui giornali più di dieci anni fa, lavorando da fotogiornalista. Collaboravo con un paio di agenzie, arrivavo anche sui più importanti settimanali e quotidiani. Per un po’ ho anche avuto una collaborazione con il Globe and Mail, un quotidiano canadese con un bravissimo corrispondente dall’Europa, basato a Roma. Viaggiavo, facevo cose interessanti. Sono stato anche in Canada a fotografare la NBA. Momento comico: il giornalista di una testata nazionale italiana che mi chiese di coprire le olimpiadi invernali di Vancouver da Toronto, “noi non possiamo mandarti sul posto”. Come chiedere a uno basato a Madrid di seguire le olimpiadi a Mosca, tanto è tutta Europa.
Poi mi sono messo a fotografare scienza, e anche lì mi dicevano tutti che avevo talento, che sarei arrivato da qualche parte. Solo che già allora avevo a che fare con i problemi che poi avrebbero coinvolto tutto il giornalismo. Era appena arrivato il digitale e tutti si mettevano a fare i grandi fotoreporter. E la conseguenza è stata che i giornali hanno cominciato a pagare pochissimo perché, tanto, le foto potevano prendersele da internet o da qualcuno che le dava gratis in cambio del fantastico “premio” di vedere il proprio nome stampato.
Già allora bisognava avere a che fare con quelli che ti chiedevano di lavorare gratis in cambio di visibilità o di ipotetici contratti che però non arrivavano mai. Altro che contratti: gli editor cui risolvevi il problema di trovare un’immagine non ti rispondevano neanche alle mail.
Così, sia perché quel settore ormai mi sembrava intossicato, sia perché avevo l’onestà di riconoscere che non avevo il talento di molti miei colleghi, smisi di fotografare. Senza rancore, ma ho sempre preferito la penna, e allora iniziai la solita trafila: collaborazioni con giornaletti che non pagavano ma mettevano a stampa quello che scrivevo, blog.
Poi un giorno contattai un amico che lavorava in uno dei principali quotidiani on line siciliani e iniziai a lavorare sulla cronaca, soprattutto di Palermo ma anche regionale. Lavoro meraviglioso, persone interessanti, sempre in giro a scovare notizie, oppure in redazione a scambiare informazioni con i colleghi, fare girare i contatti, riempire la rubrica di numeri di telefono. Da lì, dato che scrivere mi piace e che riesco a lavorare su qualsiasi cosa se posso studiarmela bene, iniziai a lavorare anche per due mensili cartacei, sempre editi in Sicilia dalla stessa casa editrice del quotidiano.
Pezzi d’inchiesta, anche cose pesanti su cui si rischiavano querele, oppure pezzi lifestyle, divertenti ma con il solito caveat: ti diverti, è lavoro. Mentirei dicendo che non mi piaceva. Parlare con un sacco di persone, farsi un’idea, studiare, scrivere il pezzo, è il modo migliore in cui ci si possa guadagnare da vivere, almeno secondo me. Il problema arrivava al momento dei pagamenti, quando l’estratto conto mi ricordava che le mie giornate lavorative di sedici ore, i miei cinquanta pezzi al mese, la fatica, la voce roca per tutto il parlare, il tempo sottratto ad altri progetti, erano ripagati sempre con la stessa cifra: cinque euro lordi a pezzo per il quotidiano, sei euro a pagina per i mensili.
Fate voi i conti, non ci si riesce a pagare neanche un affitto. Neanche al sud. Lo so, ero stato avvertito. Quell’amico che chiamai me lo disse fin dalla prima chiacchierata, occhio che pagano cinque euro a pezzo. E a me sta bene, non è quello il problema. Non mi sono mai fidato dei colleghi che hanno in mente un’età mitica del giornalismo in cui potevi essere assunto da subito e fare il tuo lavoro in tranquillità. So che c’è stato sempre da fare gavetta, da rimanere precari (penso una volta si dicesse “abusivi”) per anni e anni prima di avere una possibilità.
Ma ecco l’opinione che mi sono fatto negli ultimi anni: una volta questa maledetta possibilità arrivava. Lontana, evanescente, ma arrivava il momento in cui si sarebbe potuto contare su una situazione migliore. Oggi invece l’unica prospettiva è di continuare a vivacchiare unicamente per ritrovarsi nella stessa situazione dieci anni dopo. Il problema coinvolge tutti, a livelli diversi. Ci sono miei colleghi che hanno provato a farsi dare un fisso e si sono sentiti rispondere che no, il modello di business preferito dall’azienda è proprio quello, collaboratori usa e getta a cinque euro lordi.
C’è il direttore attuale del mio quotidiano che fa i salti mortali per fare funzionare tutto e continuare ad avere un giornale su cui scrivere. Ci sono i colleghi giovani che darebbero il triplo di quanto già danno, se solo si vedessero incoraggiati dall’azienda. Invece no, l’obiettivo è vivacchiare, tenere tutto com’è. Lo so, da questa storia mancano diversi pezzi. I nomi dei giornali con cui lavoro, tanto per cominciare. Ma non voglio scriverli perché qui il problema è di sistema, non è di una testata o di un’altra. Altri colleghi, che lavorano per altri giornali diffusi in tutta la Sicilia, potrebbero scrivere esattamente lo stesso mio pezzo. E se scrivessi male del mio giornale, per una strana legge di questo mondo ad andarci di mezzo sarebbe il direttore, che è quello che invece ci sta rimettendo in salute per migliorare un po’ le condizioni del giornale, incluse quelle dei collaboratori.
Un altro pezzo mancante: i colleghi più anziani, assunti e al sicuro. Che sono meravigliosi in alcune situazioni, come quando cercano di girarci più lavoro possibile, spendono il nostro nome, cercano di darci contatti. E diventano odiosi un attimo dopo, quando tengono i piedini sul tavolo perché tanto avranno uno stipendio a fine mese, o quando ti chiedono di fare il loro lavoro perché chissà con che crisi isterica si sono svegliati quel mattino.
Un giorno mi è capitato di sentirmi chiamare dal corrispondente di un grosso giornale nazionale, una cosiddetta grande firma del giornalismo siciliano. Era appena successa una cosa in una scuola e io avevo passato la mattinata visitando l’istituto, parlando con gli insegnanti e poi sentendo al telefono un paio di persone interessate.
Mentre stavo scrivendo il pezzo mi chiama la grande firma. Non gli avevo mai parlato in vita mia. Mi chiede cosa so di quel fatto. Come cortesia professionale, ci mancherebbe. Gli dico un paio di cose, e sento che batte al computer. Lui la grande firma, io quello che merita cinque euro lordi a pezzo. Non l’ho mai più risentito.
Qualcuno dovrebbe tutelare i nostri diritti, chiaro. Ma ecco in che modo l’Ordine dei giornalisti si è materializzato per la prima volta nella mia vita. Scrivevo da qualche mese sul quotidiano on line, il mio nome aveva iniziato a girare un po’ nell’ambiente palermitano. Cercavo di capire in cosa consistesse la mia posizione da cronista, dal punto di vista delle leggi, di quello che potevo o non potevo fare, e se non fosse stato per l’aiuto di qualche collega volenteroso non ci avrei capito nulla.
Ed ecco che un giorno arriva una telefonata dell’Ordine al direttore di allora, dicendo che il fatto che mi chiamassi Antonio Giordano era un problema. Un altro collega ha lo stesso nome ed è infastidito dal fatto che io firmi con il mio nome, nemmeno fosse un marchio registrato, così l’Ordine si preoccupa di chiedere se non ho un secondo nome o uno pseudonimo con cui sostituire la mia firma. Che è davvero l’unica cosa che ho.
Antonio Giordano
N.B. di Senza Bavaglio. A Milano ci sono parecchie omonomie, anche di firme ben conosciute che hanno lo stesso esatto nome e cognome. Ma, per fortuna, all’Ordine della Lombardia, nessuno si è mai sognato di contattare qualcuno per fargli cambiare nome. E con tutte le omonomie che esistono nel giornalismo italiano, non ci risulta che qualcuno sia mai stato contattato e invitato a usare un nome diverso.
Sono Antonio Giordano. Quello “infastidito” dal nome del collega.
Nessun fastidio, figuratevi. Ma solo una questione di correttezza nei confronti di chi legge, anche e prima di tutto. Come voi di “Senza Bavaglio” credo possiate bene comprendere.
Vediamo di spiegarlo meglio: il giornalismo è anche un lavoro di contatti con le fonti che sono frutto di anni di lavoro, di conoscenza. Una questione di fiducia. Siamo tra colleghi: non devo insegnarlo io.
Esempi: pezzo di ricostruzione politica con successiva chiamata “Ma cosa hai scritto?”. “No guarda non sono io…” Questo più volte. Richieste dalla redazione centrale del quotidiano per il quale ero sotto contratto (e quindi con l’esclusiva) di spiegazioni su un pezzo comparso su un sito internet con il mio stesso nome. “No, non sono io”. Vedete come non si tratta di un “fastidio” nei confronti del freelance. Unico modo di intervenire? Chiedere all’Ordine.
Con l’omonimo collega siamo ci conosciuti che faceva fotografie, scherzammo pure sul nome, e ci ritrovammo un paio di volte solto qualche palco di qualche comizio della campagna elettorale per le regionali siciliane del 2006. Io lavoravo per una agenzia di stampa, già dal 2000. Poi per due quotidiani. A scrivere e firmare con il mio nome: Antonio Giordano.
La mia richiesta è stata dettata una “prassi ordinistica”, come la chiamano gli avvocati. E come è uso in tutti le altre “professioni liberali” dove possono verificarsi casi di omonimi che lavorano nello stesso territorio (e che magari seguono anche le stesse cose). Si chiede al più giovane secondo iscrizione all’albo professionale di differenziarsi. Semplice.
Due avvocati con lo stesso nome che lavorano nello stesso Tribunale? Due magistrati nello stesso distretto giudiziario? Non accade così in Lombardia? Converrete anche che lo scenario giornalistico lombardo (per quanto in crisi) possa essere ben diverso da quello siciliano ed è difficile che due colleghi omonimi possano trovarsi a seguire la stessa cronaca nella stessa città.
Antonio Giordano