Barbara d’Amico
Torino, 20 dicembre 2019
Invitiamo tutti i colleghi che hanno subito e subiscono
le vessazioni di editori e direttori, nel silenzio di Ordine e sindacato,
a inviarci le loro testimonianze.
Il silenzio non aiuta e peggiora la già tragica condizione del giornalismo italiano.
Denunciamo per cambiare, per avere diritti,
per poter essere ancora e sempre i cani
da guardia della democrazia.
Aspettiamo le vostre lettere che pubblicheremo,
se richiesto perché si temono ritorsioni,
omettendo la firma e gli altri elementi dai quali si può
risalire all’identità del giornalista.
A seguire la testimonianza di Barbara d’Amico,
giornalista de “Il Corriere della Sera”,
che ha deciso di interrompere le collaborazioni. Ecco le sue ragioni.
Da oggi interrompo la collaborazione con il Corriere della Sera e in particolare con la sezione per cui scrivo da anni, La Nuvola del Lavoro. Voglio spiegarvi bene le ragioni di questo stop. La prima è di natura pragmatica. Per la seconda volta da quando collaboro con la testata i compensi lordi per gli articoli online sono stati arbitrariamente abbassati, stavolta del 25% (la prima volta fu del 50%: da 40 euro lordi a 20 euro lordi ora siamo a 15 euro lordi). Dico arbitrariamente nel senso che non ho mai ricevuto una comunicazione tempestiva, prima che i tagli fossero effettivi. È chiaro, lo decide il management, ma saperlo in tempo aiuta a capire se continuare a collaborare sia sostenibile oppure no. I nuovi tagli sono stati decisi a ottobre, ma ne sono venuta a conoscenza solo venerdì 6 dicembre, direttamente in “busta paga”, per così dire e per articoli già scritti. La comunicazione interna, dalla redazione, è poi arrivata stamattina, ma a mio avviso comunque tardiva.
E qui veniamo alla seconda e vera ragione: il silenzio. Non deve essere un tabù comunicare in modo chiaro ai collaboratori che non c’è budget sufficiente, che non ha senso continuare. Può capitare, non esiste un diritto alla collaborazione né tantomeno esiste una formula magica per far decollare un prodotto editoriale e garantire poi contratti e tutele. Ma il lavoro giornalistico, a qualunque livello, è lavoro. Non un hobby.
Penso esista quindi sempre un dovere di informazione interna attraverso una comunicazione chiara, trasparente e non lasciata ai cedolini, alla sensazione, all’effetto sorpresa. E penso esista una sorta di dovere di sostenibilità: se cioè affido un lavoro all’esterno, anche con poche risorse, devo almeno sincerarmi che quelle risorse e quelle condizioni si possano mantenere. Non si tratta dei 5 euro in più o in meno, ma della fiducia di chi collabora. Poi ognuno, sapendo come stanno le cose, può decidere se lavorare quasi gratis oppure no.
Capisco tutto, anche il fatto che non ci sia comunicazione tra management, amministrazione e redazione, ma il risultato di questo caos interno non dovrebbe essere fatto scontare alle professionalità che stanno in fondo a questa ipotetica catena di comando. Non voglio nemmeno che la vicenda passi come prova che il passo indietro dipende dai tagli, dalla crisi dell’editoria, dal fatto che “la gente non legge e non compra più il giornale”. C’è un livello più interno, di rispetto minimo, che passa anche per il modo in cui si organizza il lavoro e riguarda il trattamento delle persone. Senza bisogno di tirare in ballo i Cda, la libertà di stampa, il rosso in banca, l’analfabetismo funzionale. Anzi. Parlando più in generale, ho sempre pensato che puntare il dito contro il lettore ignorante o scroccone o non meglio identificati difetti di sistema fosse il miglior modo di non assumersi mai responsabilità.
Nell’editoria c’è la tendenza del ristoratore. È come se un ristoratore desse colpa del calo degli affari al fatto che la gente non mangia più o peggio mangia ciò che trova in strada. Non cambia strategia, ma nel frattempo continua a chiedere a cuochi e camerieri di servire. Esistono ragioni strutturali per cui i compensi sono bassi, è chiaro, ma non c’è una legge che obblighi le redazioni ad avvalersi del lavoro esterno se le risorse scarseggiano. Penso cioè che la responsabilità di questo stato di cose non sia solo “degli altri” né dei piani alti: è anche e soprattutto di chi denuncia, e quindi mia in qualità di freelance. Avete capito bene. È mia corresponsabilità perché nel momento in cui accetto certe condizioni poi diventa difficile chiedere cose come maggior trasparenza, chiarezza, tempestività.
Al di là dei soldi, che avrete capito qui non sono il vero motivo dello stop, trovo incongruente continuare a infondere energie e competenze nel dare voce al mondo del lavoro quando nel mio ambiente di lavoro mancano quelle condizioni minime predicate in editoriali e articoli. E proprio per questo è illogico chiedere a collaboratori freelance sottopagati di verificare le notizie.
È un settore particolare quello del giornalismo, non certo un mondo in cui scorrono fiumi di denaro. Lavorare gratis o sottopagati, lo sappiamo, è un errore e parte del problema. Ma c’è anche una sciatteria pericolosa da parte di chi sa bene che potrebbe e dovrebbe fare a meno dell’esternalizzazione delle collaborazioni e invece persevera senza produrre un piano di sostenibilità di medio o lungo termine. Dico piano volutamente, perché non è detto funzioni, ma almeno bisogna far vedere che una visione c’è. Se il lavoro dei collaboratori nel giornalismo non è ritenuto economicamente sostenibile e degno di comunicazioni tempestive – accade a me, ma anche ad altri colleghi in altre testate – perché continuare ad avvalersene?
Non è una questione di denaro. Ma di coraggio. Credo, insomma, sia arrivato il momento dicongedarmi, per tutte le ragioni che ho descritto, sperando di stimolare un minimo di riflessione sull’opportunità di continuare a tenere in vita sistemi non pianificati. Senza scomodare per ora diritti e tutele che pure sono essenziali per fare informazione.
Servirebbe un’ecologia del giornalismo.
Servono un piano, umiltà, coesione tra chi fa lo stesso mestiere a prescindere dal contratto con cui lo svolge e bravi manager dell’informazione in grado di chiarire a monte cosa ci si può permettere e cosa no. Sono le uniche formule in cui credo e che cerco di portare avanti da anni, insieme alla convinzione che rallentare, dire no e non accettare di collaborare a qualunque condizione, sia la strada da seguire.
Barbara d’Amico
twitter @sbavaglio
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