Speciale per Senza Bavaglio
Lucia Bocchi
Milano, 16 ottobre 2019
Chi sia Chiara Ferragni è noto a tutti, cosa faccia esattamente è questione per alcuni invece un po’ più fumosa. Di fatto per la moda è la influencer più potente al mondo (secondo Forbes, nel 2017).
Case history per la Harvard Business School, dove lei stessa ha tenuto lezione. Per i giornalisti economici è un’imprenditrice digitale di enorme successo (con milioni di follower e di fatturato annuo), per tutti i giornalisti è un caso su cui riflettere per quanto il suo operare tentacolare si sovrapponga, se non addirittura scalzi, l’informazione/comunicazione intesa- ancora – alla luce della deontologia. Il punto focale della discussione sta proprio nel verbo “influenzare” che dovrebbe essere antitetico per chi dell’informazione fa la sua professione. Naturalmente non è per accanirsi sul singolo soggetto Chiara Ferragni, ma per il fenomeno mediatico che lei rappresenta insieme agli altri influencer, in ogni settore. Si tratta di spietato pressing nell’orientare gli acquisti, di prodotti e servizi, ammantato di insuperabili immagini e tante belle parole. Che agisca nel mondo fashion è quindi più consono e plausibile che in settori più critici, dal benessere/salute al tempo libero.
I segnali della istituzionalizzazione del ruolo di influencer ci sono tutti: il più recente è il lancio della laurea triennale come influencer dell’università telematica e.campus (https://blog.uniecampus.it/2019/10/08/8456/), a fianco del corso più breve, ma sempre con la stessa impronta, proposto da Accademia del Lusso (www.accademiadellusso.com): c’è da scommetterci che ci sarà a breve un fiorire di proposte formative del genere. A dire il vero la professione emergente viene descritta come innovazione del marketing, ma tutti sappiamo quanto marketing e giornalismo abbiano affievolito i loro confini; quindi il dilagare non tanto dei blogger, quanto degli influencer come opinion leader ci riguarda, eccome!
Se il mercato richiede queste figure è chiaro che nascano anche le opportunità educative per uscire dallo spontaneismo, più scivoloso invece il terreno degli editori e dei direttori che sempre più si avvalgono di influencer. Antesignana la Condé Nast Social Academy.
Torniamo anche alla Ferragni che è appena entrata nel comitato scientifico di RCS Academy (rcsacademy.corriere.it/Master) e, per passare al fronte Mondadori, è stata anche “direttrice ospite” dell’ultimo numero di agosto 2019 di Grazia, con l’investitura ufficiale da parte della direttrice responsabile Silvia Grilli, lei stessa “chiacchierata” per sponsorizzare personalmente griffes, in modo ben poco subliminale.
Sintomatico anche un riscontro dal corso per i praticanti, tenuto dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, in vista dell’esame a Roma, il 29 ottobre 2019. Tra le tracce-prova della sezione moda ce n’era una proprio sulla bionda ragazza prodigio di Cremona. Delle tre praticanti che l’hanno svolta nessuna ha sfiorato l’argomento collisione tra giornalismo e influencer. Hanno scritto del successo della Ferragni tramite i social media, ma nulla delle interferenze con le testate, segno che la commistione è ormai digerita, almeno lo è dal pubblico femminile.
Le recenti cronache riportano anche della presentazione del docufilm ‘Unposted’, agiografico biopic di Chiara Ferragni e della sua influenza su media e business, all’ultimo Festival del Cinema di Venezia. Evidentemente a gran parte della gente oggi interessa più essere influenzata che informata.
Annacquato anche il concetto di privacy, visto che i più si specchiano e imitano la vita in diretta, minuto per minuto, non solo degli influencer ma anche dei vip e dei vicini di casa.
I giornalisti non devono però scagliare nessuna pietra né scandalizzarsi in modo puritano, perché stampa e online sono invasi da articoli para-pubblicitari, i titoli sparano i marchi e alcuni colleghi stessi postano, sulle loro pagine personali, foto con capi d’abbigliamento dai loghi ben riconoscibili. Un’ultima linea di demarcazione è che mentre Chiara Ferragni produce e distribuisce prodotti a suo nome, i giornalisti non sono ancora arrivati a questo. Ma in alcuni uffici marketing delle case editrici è già ventilata l’idea di brandizzare e vendere oggetti, viaggi e servizi col nome delle testate. Negli Anni ’90 settimanali e quotidiani hanno cercato di sopravvivere con i gadgets, ora addirittura rischiano di far vendere oggetti trendy “nello stile del proprio brand”, senza che nessuno più paghi per la funzione primaria: leggere.
Lucia Bocchi
Consigliere dell’Ordine della Lombardia
per Senza Bavaglio
twitter @sbavaglio
Leave a Comment