L’INPGI giudica l’INPGI, e si dichiara innocente. Ma la sentenza non convince

Senza Bavaglio
Roma, 5 marzo 2019

L’INPGI sta diffondendo – a puntate, è uscita la prima – una serie di fatti/obiezioni con il fine dichiarato di fare chiarezza su presunte “notizie fasulle” che circolano sulle condizioni dell’Istituto e sulla qualità della sua amministrazione. E infatti la premessa è: “Sull’INPGI e sulla sua crisi circolano troppe inesattezze, imprecisioni, vere e proprie bugie che vengono rilanciate con leggerezza anche da addetti ai lavori ed esperti. Cerchiamo di smontarle una per una”. Un’operazione lodevole e interessante se si dicesse veramente la verità, tutta la verità. Ma purtroppo non è così.

Vediamo quali verità mancano alle affermazioni della presidente dell’INPGI Marina Macelloni. (in nero, le risposte della Presidente alle presunte “fake news”)

“L’Inpgi ha fatto le riforme in ritardo”

Da quando è privatizzato l’INPGI ha fatto cinque riforme, la prima nel 1998, che hanno progressivamente ridotto i trattamenti pensionistici. Con l’ultimo intervento del 2017 i trattamenti sono equiparati a quelli del sistema generale.

Cosa manca. Il fatto che si siano fatte cinque riforme, o dieci, o quindici, non significa affatto che si sia lavorato bene, anche perché le riforme vengono anche sollecitate dai ministeri vigilanti. Anzi, proprio il fatto che si siano dovute fare più riforme dimostra che l’Istituto si è mosso in ritardo, e non ha saputo avere una visione prospettica della crisi.

La direttrice dell’INPGI, Mimma Iorio (a sinistra) con la presidente Marina Macelloni

“La situazione dell’INPGI è colpa delle gestioni del passato”

La difficoltà dell’INPGI deriva unicamente dalla grave crisi del settore dell’editoria che ha comportato una perdita ingente di posti di lavoro e quindi il calo dei contributi. La passata gestione è stata sottoposta al giudizio del Tribunale di Milano e l’ex presidente è stato assolto con formula piena da ogni accusa. L’istituto è sempre stato gestito con la massima correttezza.

Cosa manca. Un conto è la correttezza, un conto è la buona amministrazione. E’ certo legale che la presidente Marina Macelloni sia retribuita con un appannaggio di 229.500 euro, ma il presidente dell’INPS – istituto di dimensioni assai più cospicue – ha uno stipendio do 102mila euro l’anno. Gli sprechi dell’istituto, dai ventimila euro l’anno di spese di rappresentanza agli alti appannaggi del CdA, riconosciuto anche a chi ha la residenza all’estero, sono una situazione scandalosa, se si considera che gli attuali amministratori si vantano di aver chiesto sacrifici anche agli iscritti pensionati. L’ex presidente è stato assolto da ogni accusa che gli era stata mossa in sede giudiziaria, ma quando si parla di cattiva gestione non ci si riferisce soltanto a possibili reati. I conti dell’INPGI sono entrati in crisi dal 2009, con il contratto firmato dalla FNSI e con la FIEG. Camporese, allora presidente dell’INPGI, invece di lanciare un segnale d’allarme, affermò in quell’occasione che l’Istituto poteva “reggere” le ripercussioni del contratto. Quel contratto, che va letto in coordinato disposto con l’accordo raggiunto contestualmente tra sindacato ed editori per i prepensionamenti, è la prima causa dei conti drammatici di oggi. Quel contratto infatti ha permesso il ridimensionamento dei posti di lavoro (a cominciare, ad esempio, dal via libera alle sinergie), ha raffreddato energicamente gli scatti d’anzianità (riducendo drasticamente i contributi all’INPGI), ha mandato in pensione fino a sette anni prima del previsto centinaia e centinaia di colleghi. Con contributi che si sono trasformati in massa in pensioni. La crisi del settore c’è, ma riguarda principalmente la carta stampata – successivamente, e per altri ragioni, anche le agenzie di stampa – e quindi non tutto il mondo dell’editoria; ed è stata amplificata da accordi compiacenti che hanno fatto sì che la pagassero soltanto i lavoratori (e il loro istituto di previdenza).

“L’INPGI ha di fatto finanziato l’editoria italiana”

L’istituto paga gli ammortizzatori sociali (cassa integrazione, disoccupazione, contratti di solidarietà) unicamente con le proprie risorse sulla base di stati di crisi aziendali firmati dal ministero del Lavoro e ai quali non possiamo opporci. Ad oggi l’ente tutela 7mila colleghi. Il costo degli ammortizzatori sociali nel 2018 è di circa 37 milioni.

Cosa manca. L’INPGI non si può opporre? Prima di tutto, può denunciare e contestare gli accordi che violano vistosamente le regole. Un esempio: gli ammortizzatori orizzontali, e non verticali, applicati alle figure di vertice (dal redattore capo in su) nei giornali. Per i redattori capo non c’è limite di orario di lavoro, e quindi come si può accettare accordi in cui l’orario di lavoro è ridotto a spese dell’INPGI? L’INPGI lo ha fatto

“Perché salvare L’INPGI? Meglio confluire nell’INPS”

Salvare L’INPGI significa continuare a garantire lo svolgimento della propria funzione istituzionale nell’ambito del sistema previdenziale, intercettando le trasformazioni in atto nel mondo dell’informazione nonché a garantire l’autonomia al lavoro dei giornalisti. Confluire nell’INPS non offrirebbe la stessa garanzia e avrebbe un costo per lo stato di circa 600 milioni all’anno, cioè la spesa per pensioni e welfare che vogliamo continuare a pagare da soli senza gravare sulla fiscalità generale.

Cosa manca. La presidente dell’INPGI lo ha detto pubblicamente: è l’INPS che non vuole farsi carico dei giornalisti e del loro sistema previdenziale. Altro che autonomia e intercettare le trasformazioni in atto, e generosità verso la fiscalità generale. Non prendiamoci in giro, per favore.

Senza Bavaglio

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