CONTRATTO/Iniquo compenso, le scelte suicide della FNSI (di Fabio Morabito, giunta FNSI)

CONTRATTO/Iniquo compenso, le scelte suicide della FNSI
di Fabio Morabito, giunta FNSI

Quando si è deciso di disciplinare nel contratto dei giornalisti il lavoro autonomo e precario, una volta che gli editori avevano accettato di discuterne (e questo è stato merito della legge sull’equo compenso) ho provato nella Giunta della FNSI di cui faccio parte a fare delle proposte, partendo da un presupposto: bisognava introdurre nuove figure contrattuali che rappresentassero – condizione imprescindibile in una trattativa – vantaggi condivisi (per i giornalisti e per gli editori), che garantissero dignità e sicurezza al collega, e che fossero legate più al tempo dell’impegno richiesto che alla quantità del lavoro fatto.

Sui co.co.co. ho sempre pensato questo: il nostro impegno doveva essere rivolto a eliminare questa figura perché dietro questi contrattini, disdettabili in ogni momento dall’editore, vengono commessi troppi abusi. Ma la legge che ha mantenuto i co.co.co. per gli ordini professionali c’è, e quindi bisogna ragionare sull’esistente, provando ad aumentare le tutele per i colleghi.

Mentre con la legge sull’equo compenso – con un ruolo del governo, con la presenza dell’Ordine – era logico arrivare a un tariffario, un’intesa sul contratto che stabilisse dei compensi minimi mi sembrava un terreno minato, dove il sindacato – e quindi i colleghi e i loro diritti – avrebbero perso la partita.

Non ci si misura in un confronto del genere senza capire anche le ragioni della controparte. E quale intesa era possibile, sui quotidiani, se dall’altra parte del tavolo si deve ragionare su un minimo che vale per il Corriere della Sera come per lo Strillo di Vicovaro? E non ci si misura in un confronto del genere senza la consapevolezza che scrivere di una cosa o di un’altra richiede un impegno e una professionalità spesso molto diverse e lontane. Come si può stabilire un pagamento minimo a pezzo che metta sullo stesso piano un’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose e l’inaugurazione di uno stabilimento balneare?

Ma la FNSI non ha sbagliato tutto il percorso. Prima di arrivare a questo approdo che non condivido, che considero un’offesa alle aspettative dei colleghi e anche, di riflesso, un danno alla libertà d’informazione, una piattaforma è stata tentata. Una piattaforma con degli errori, con delle fragilità concettuali proprio nel cuore esplosivo del problema (i compensi), ma che rimarcava il principio che la retribuzione doveva essere proporzionata non solo alla quantità ma anche alla qualità della prestazione, e cercava una soluzione nell’individuare un elemento base e un elemento variabile nel valore riconosciuto, suggerendo una sponda nella c.d. contrattazione di secondo livello (i cdr) tenendo conto della “specificità aziendale”.

Dico subito che non era la soluzione proposta da me, che in Giunta avevo insistito su altre forme contrattuali, non di co.co.co. che sarebbero rimasti licenziabili in ogni momento. Ma era, almeno, una proposta. Quella che mi piaceva invece era la “cornice” dell’ipotesi della FNSI, che recepiva alcune delle mie richieste, che ne aggiungeva altra ambiziose e importanti, dall’assicurazione infortuni a quella sulla responsabilità civile, dal passaggio dall’Inpgi 2 all’Inpgi 1 fino a 35 giorni di riposo retribuiti.

C’era una piattaforma ma non un progetto, che è il sapere andare avanti provando a disciplinare la professione in quello che si immagina sarà il futuro. Non c’era, né certo ci sarebbe stata – in ogni caso – la Luna. Ma si poteva sperare in un accordo che segnasse un progresso.

Si poteva sperare, e questo a dispetto di un metodo di lavoro approssimativo e distratto in quello che è stata l’attività di preparazione dei lavori contrattuali. Ho chiesto – invano – che ci fosse una Giunta proprio sui temi del lavoro autonomo, e che si discutesse di quanto prodotto nelle varie commissioni (quella nazionale, prima di tutto, ma anche quella dei gruppi di specializzazione formatisi nelle varie associazioni regionali), fino anche alle piattaforme dell’opposizione, minoranze più vivaci di una stanca e autoreferenziale maggioranza che gestisce il sindacato.

Ma non c’è stato spazio per la riflessione e il confronto, e piattaforme su piattaforme sono rimaste carta straccia. Anche se, naturalmente, che un’idea sia buona o cattiva, è un’opinione. Ma l’impegno di discuterne non doveva essere un’opzione, bensì un dovere.

Poi, c’è stato un blackout. La Giunta è stata messa da parte, non più neanche testimone al confronto che il segretario ha deciso di portare avanti da sé, in “ristretta” con il presidente, forse anche con qualche componente della segreteria (e questo neanche lo so).

Contemporaneamente è diventata protagonista in solitaria la piattaforma degli editori. Che aveva un fine ben chiaro. Da artificiere, direi. E cioè: disinnescare la legge sull’equo compenso, disinnescare l’ondata di cause di lavoro dei collaboratori che reclamano – prima di tutto, per i centinaia di articoli prodotti ogni anno – un posto da redattore. E, perché no, disinnescare l’articolo 2 del contratto, quello specifico sui collaboratori, ai quali molti giudici guardano come soluzione nelle cause di lavoro quando non sono convinti che ci siano gli estremi per riconoscere un articolo 1.

Naturalmente, raccontata così, sembrerebbe che il protagonismo di Siddi sia l’origine del disastro. Ma questo non mi sembra giusto dirlo. Anche se il segretario generale della FNSI è, per il suo ruolo, sempre il primo responsabile delle scelte fatte. Ma il consenso, il sostegno e la legittimazione di queste scelte non è mai mancata da parte della schiacciante maggioranza della Giunta. E le avvisaglie c’erano tutte, e se la Giunta esecutiva veniva spesso informata dopo il Dipartimento sindacale (una sorte di Giunta-bis aperta solo a chi “è in linea”, una plateale violazione dello Statuto), c’è stato modo e tempo di reclamare uno stop. Io l’ho fatto.

Qualcun altro si è lamentato della “troppa fretta” lasciando però poi a Siddi il via libera con un voto che rasentava l’acclamazione. E lo dimostra il fatto che poi, alla firma dell’intesa in Fieg sul lavoro autonomo, sono stato l’unico dei presenti a dichiararsi contrario e a non firmare l’accordo.

Negli ultimi mesi, quando la trattativa è diventata più concreta e meno filosofica, il segretario generale ci ha via via presentato un quadro che è andato definendosi sempre peggio. Non solo sul lavoro autonomo o parasubordinato, ma su tutte le voci trattate del contratto. Certo, la Giunta esecutiva in primavera non è stata convocata con la stessa frequenza del passato. Non è stata coinvolta come sarebbe stato necessario. Ma sono stato l’unico a protestare.

Come gli editori intendevano riempire la voce “pagamento minimo” per i co.co.co. è stata annunciato dal segretario Franco Siddi durante la Commissione lavoro autonomo del febbraio scorso. Per 9-10 articoli di una cartella su una testata nazionale 250 euro al mese. Dieci articoli a 250 euro sono 25 ognuno; siccome – bontà loro – gli editori ci offrivano l’opzione nove pezzi, il pagamento saliva a 27,78.

Quando venne citata questa cifra, inevitabilmente, ci furono delle proteste. Un collega della Segreteria replicò piccato: “Ma si tratta della proposta degli editori, mica della nostra!”. Come per dire: adesso trattiamo, e il compenso minimo non potrà che aumentare. Risultato finale: un articolo su una pagina nazionale, nell’accordo siglato nella sciagurata notte tra il 18 e il 19 giugno scorso, di “almeno” 1.600 battute (nella precedente versione bastavano cento battute in meno), ora vale 20 euro e 80 centesimi. Quindi: la proposta iniziale degli editori dopo la trattativa è peggiorata.

La “base” è sempre 250 euro al mese, ma è eguale per tutti, pagine nazionali o locali. Solo che ora servono 12 articoli da garantire ogni mese. Dodici articoli di almeno 28 righe da 56 battute. Una cartella. Ma non finisce qui. Se si supera i dodici articoli al mese, il pagamento non resterà lo stesso, ma diminuirà: è stato introdotto un “riduttore” che – umorismo involontario- le parti sociali hanno definito “moltiplicatore”. Il pagamento viene ridotto al 60 per cento di queste cifre già imbarazzanti per il successivo blocco di 144 articoli all’anno. Completiamo il quadro? Per un lancio d’agenzia la cifra decisa è di 6,25 euro lordi. Per un testo sul web ancora 6,25 euro lordi.

E poteva andare anche peggio – sì, è incredibile, ma è così – se non fossi stato ascoltato, nella lunga notte alla FIEG, almeno su una cosa: che non era accettabile il principio che il pezzo d’agenzia o sul web comprendessero gratis anche la fornitura di contenuti multimediali. Una maggiorazione, almeno su questo, è stata accordata.

Ma se tutti, nella reazione a caldo, parlano di cifre (i giornalisti del lavoro autonomo, parasubordinato, sottopagato, per indignarsi; la segreteria della Fnsi ha invece diffuso un comunicato con toni trionfali proprio sulle cifre dei minimi ottenuti), io vorrei mettere in luce quanto di altro in questo accordo non va bene. Cominciando dalla premessa: “In fase di stesura del Cnlg – dice il testo – fermo restando i rapporti di lavoro in essere, le parti procederanno, per la necessaria compatibilità con la presente regolamentazione, a chiarire, nell’art. 2 dello Cnlg, i criteri caratterizzanti e distintivi della collaborazione fissa”. Il che vuol dire: depotenziare l’art. 2 del Contratto e le sue tutele.

Passando alla dignità della firma. Se il pezzo firmato di un redattore viene modificato, il redattore deve sempre essere avvertito. Invece, se il giornalista è un co.co.co. si possono apportare quelle modifiche “di forma” (e chi lo dice quando non sono di sostanza?) che sono motivate dai “fini” del giornale, senza avvisare il collaboratore. Esiste una dignità diversa del nome del giornalista a seconda del contratto che ha? Quando ho chiesto la “pari dignità” della firma, gli editori sembravano non avere problemi a concederla, essendo la loro delegazione più concentrata su tagli e risparmi.

Poi: il riconoscimento dei rimborsi, che in fase di trattativa a un certo punto era stato dato quasi per acquisito. Il nuovo testo, invariato dall’allegato precedente (perché parliamoci chiaro: i co.co.co. in un allegato del contratto già c’erano, gli è stata data solo una cornice in più ed è stato introdotto un tariffario) dice che le spese sono a carico del collaboratori e sono riconosciuti solo i rimborsi preventivamente accordati. Preventivamente: se il datore di lavoro ci ripensa, non li può riconoscere anche dopo? Ho chiesto – invano – mentre si avvicinava l’alba del 19 giugno, che fosse evitata una formula così, che di fatto esonera gli editori, e fosse invece indicata almeno la possibilità di un rimborso. Magari lasciando uno spazio di trattativa con i Cdr. Venti euro (o 6,25) lordi, comprendono anche telefonate, benzina…

Ancora: si è detto poco su quella parola, “almeno”, che è la chiave di ogni possibile nuovo abuso anche su questi minimi. Gli articoli che i giornalisti devono fornire devono avere “almeno” 1.600 battute e devono essere “pubblicati”. Questo significa che se un articolo è di 1.550 battute potrebbe non essere pagato. E se è di duemila battute, ma viene pubblicato tagliato a 1.550 potrebbe non essere pagato.

Ho sollevato anche questo problema, nella notte in FIEG, e Siddi mi ha risposto che no, certo che no, questo sarebbe inammissibile, tutto il lavoro va pagato. Però poi non è stata aggiunta neanche una noticina a verbale, in cui si indicasse che la FNSI dava per assodato che anche una notizia, anche una breve, doveva avere un riconoscimento nella retribuzione. Non finisce qui.

Quell’”almeno” racchiude ben altro. Perché “almeno” stabilisce un tetto minimo di scrittura, ma non afferma il principio che se l’articolo anziché di una cartella è di tre cartelle debba essere pagato in proporzione. La tariffa (20,80 euro) non cambia.

Non c’è poi traccia – amaro gioco di parole – della “tracciabilità” del lavoro del collaboratore. Ma questo, su cui avevo insistito tanto perché mi sembra un passaggio obbligatorio per la trasparenza della retribuzione, era già stato accantonato nelle proposte FNSI. La mia richiesta era: una distinta, ogni mese, dei pezzi proposti (e non solo pubblicati), in quale testata venivano utilizzati, quanto ciascuno veniva pagato. Perché è importante? Perché se il pagamento di un servizio non veniva “registrato” il giornalista poteva far correggere l’errore, e farselo pagare, segnalando la dimenticanza. Perché se c’è il tentativo di pagare dei pezzi zero (quelli sotto il tetto di battute…) che l’editore lo dichiarasse nel cedolino, e ci sarà pure un giudice a Berlino…

Un redattore ha il suo cedolino, che dice se ha lavorato la domenica, quanti notturni ha fatto, di quanti giorni di riposo e di ferie ha goduto. Il collaboratore – per trasparenza – ha il diritto di avere il “certificato” del lavoro fatto. Quello è stato concesso, in questa intesa, è solo che verranno indicati i pezzi o servizi retribuiti.

Poi ci sono le cose buone. L’assicurazione contro gli infortuni, che non sarà equiparata – come aveva chiesto la Fnsi – a quella dei dipendenti ma che costerà circa la metà agli editori (parliamo di sei euro al mese). Viene “registrata” un’apertura, che non costituisce impegno, a contribuire alla copertura sanitaria (l’ultima fascia della Casagit, trecento euro l’anno). Se gli editori dovessero contribuire per la metà di questa cifra, sarebbero 12,5 euro al mese. In tutto, quindi, bene che vada 18 euro e mezzo al mese di maggior spesa. Si parla di accesso alla previdenza complementare, ma sulla base del testo approvato sarà a carico solo del lavoratore. I “costi aggiuntivi” della cornice dell’intesa sono questi, e così sembra più un alibi che altro.

Un alibi per dipingere un po’ di luce su un quadro che altrimenti è buio assoluto.

Che sia buio, naturalmente, è un’opinione. La segreteria della Fnsi, in un comunicato, dichiara di pensarla in un altro modo: “Ora non sarà più possibile agli editori pagare 5 euro al massimo a pezzo. Ora si starà stabilmente 3 volte sopra questa soglia”. E ancora: “Da ora in avanti il collaboratore ha una retribuzione minima di 250 euro al mese”. “La collaborazione coordinata e continuativa non può più mascherare i redattori abusivi”.

La vedo diversamente: i nuovi co.co.co. e la bulimia del “moltiplicatore” che riduce i compensi renderanno più impervie le cause, che in quanto possibili costituiscono storicamente un deterrente alle prepotenze. E lo sfruttamento degli abusivi era fuorilegge anche prima (lo suggerisce la parola stessa), semmai sarà più facile mascherarlo adesso. Un magistrato del lavoro magari si faceva convincere, per riconoscere un contratto articolo 1, dalle centinaia di articoli prodotti. Ora, con il sindacato che ha negoziato i moltiplicatori dei co.co.co., è certificato che la massa della produzione non è più un requisito per diventare un redattore.

Resto, infine, dell’idea che un giornalismo libero debba essere garantito da pagamenti dignitosi, e 250 euro lordi al mese non sono la risposta. Non ho la pretesa di avere ragione. Ma su una cosa penso che non mi si possa dare torto. Da giornalisti sarà capitato a molti di noi di raccontare la cronaca di una vertenza sindacale. E sappiamo tutti che la normalità è che ci sia una mediazione tra richieste diverse e opposte. Se invece l’esito del confronto arriva a peggiorare le richieste iniziali delle aziende è legittimo pensare che il sindacato non abbia fatto bene la sua parte.

Fabio Morabito
Componente Giunta Esecutiva FNSI

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