Cari colleghi, siamo qui perché gli editori hanno deciso di risparmiare. I loro bilanci si assottigliano e così sono stati colti dalla “crisi psicologica” di cui ha parlato due sere fa al G20 il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, emblema e paradosso dell’editoria. Sì, è vero: i bilanci si assottigliano, la pubblicità cala (ma non per tutti), gli utili diminuiscono.
Mediaset nel 2008 ha aumentato i propri ricavi netti passando da 4.082 milioni a 4.252 milioni di euro, con un utile netto di 459 milioni, in calo di circa 50.
Il Gruppo Mondadori controllato da Fininvest ha avuto ricavi nel 2008 di 1.819 milioni di euro (-7,1% rispetto ai 1.958 del 2007) e un utile netto di 97 milioni di euro (-13,8% rispetto ai 112 dell’esercizio precedente)
Il Gruppo l’Espresso- Repubblica-Finegil ha fatturato nel 2008 1.025 milioni di euro, in calo del 6,6% rispetto agli 1,1 miliardi di euro circa del 2007. L’utile netto è invece passato da 95,6 milioni del 2007 a quota 20,6 milioni di euro
La Rcs l’anno scorso ha avuto un fatturato di 2.673 milioni di euro (-2,4%) con un utile di 38,3 milioni. Ma nell’esercizio 2007 il risultato netto era di 220,3 milioni, perché beneficiava di plusvalenze per cessioni di partecipazioni non strategiche per 51,9 milioni con dividendi per 11,7 milioni.
Caltagirone Editore spa ha avuto un utile netto negativo per 10,9 milioni dopo aver realizzato per anni risultati positivi (61,2 mln nel 2007, 31,8 milioni nel 2006, 94,4 milioni nel 2005, 31 nel 2004)
Potrei continuare così, ma questi dati tacciono degli utili da capogiro realizzati negli anni precedenti, dei valzer di acquisizioni e affari che sono continuati anche nella seconda metà del 2008, nonostante la crisi fosse già evidente.
Ma non dicono soprattutto ciò che tutti sappiamo, ma che fingiamo di ignorare. In Italia non ci sono editori puri. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, dove la crisi del settore è esplosa, chi fa l’editore deve tagliare o morire.
Qui invece abbiamo industriali, anzi confindustriali, che non solo non pensano a morire, ma neppure a rinunciare ai loro panfili ancorati nelle rade dei paradisi fiscali. Che non solo non vogliono ridurre il proprio stile di vita, ma che neppure cercano di riqualificare seriamente prodotti che di riqualificazione seria avrebbero urgente necessità. Tagliano centimetri di carta, tagliano posti di lavoro, tagliano stipendi: questa è la loro strategia di uscita dalla crisi. Liberarsi di fastidiosi orpelli chiamati giornalisti.
Ma quello che stupisce non è questo: è che la Fnsi si adegui a questo modo di fare e che gli stessi sindacalisti agitino lo spettro della crisi dicendoci che fuori dai giornali il mondo sta peggio, e dunque peggio dobbiamo stare anche noi. Dimenticandosi che chi fa questo mestiere dovrebbe avere mille garanzie di libertà e indipendenza, che vengono quasi totalmente cancellate da questo contratto. Dimenticandosi che proprio in un momento di crisi si può anche cedere parzialmente (e a tempo determinato) sui soldi, ma non si può cedere sulle regole, sulle garanzie normative. La crisi non può essere il grimaldello per licenziamenti più facili, pensionamenti di massa, ricattabilità estesa di chi lavora.
Ma se ci ritroviamo qui è anche per colpa nostra:
per anni sulle prime pagine dei giornali abbiamo colpevolmente sposato con forbite analisi economico-politiche la linea della flessibilità, che gridava contro lo Statuto dei lavoratori, chiedendo mano libera nelle aziende;
per anni abbiamo rinunciato a fare il nostro mestiere, ossia andare a vedere cosa si nascondeva dietro certi clamorosi utili o dietro certi clamorosi disavanzi;
per anni abbiamo fatto finta di non vedere gli imperi di carta straccia che assicuravano a questi signori costruttori, banchieri, finanzieri la loro posizione sempre più elevata nella classifica mondiale dei più ricchi;
per anni, siamo andati a braccetto col potere economico e politico indossando guanti bianchi e pensando di essere dei signori e dei pari di chi manovrava nei palazzi.
Ma ci eravamo illusi: erano i guanti dei maggiordomi, quelli che indossavamo.
E ora che ce ne siamo accorti, abbiamo l’impudenza di svendere ciò che resta della dignità di un mestiere che dovrebbe formare la coscienza collettiva, che dovrebbe formare i cittadini, che dovrebbe essere il cuore della democrazia, accettando un contratto che non riqualifica la professione e i suoi protagonisti, ma anzi li relega sempre più ad un ruolo marginale e li rende ancora più ricattabili.
Ecco, al di là delle considerazioni sui contenuti specifici del nuovo contratto, è questo che è del tutto inaccettabile: l’abdicazione definitiva al ruolo di servi del potere economico e politico.
Così muore il giornalismo in Italia, seppellito da penne spuntate e arrugginite.
No a questo contratto.
Giorgia Cardini
Cdr de l’Adige di Trento
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