Caizzi: “Fuori i nomi dei politici che ricevono la pensione d’oro dall’INPGI”

Per riformare veramente il sistema previdenziale occorre cancellare i privilegi di chi riscuote la rendita senza aver pagato i contributi. La FNSI proclamò uno sciopero per impedire che l’Istituto dei giornalisti passasse all’INPS

Dal Fatto Quotidiano
Ivo Caizzi
Milano, 13 luglio 2021

Andrebbero resi noti ai cittadini con la massima trasparenza i riservati tentativi in corso – per ottenere l’aiuto del governo Draghi e di politici di vari partiti – da parte della lobby dei giornalisti dipendenti iscritti al fondo previdenziale privatizzato Inpgi, che vorrebbero interventi pubblici per salvare le loro “pensioni d’oro” gonfiate con un regime privilegiato rispetto ai risicati parametri del sistema Inps dei comuni italiani.

Innanzitutto perché il costo di un eventuale salvataggio sarebbe pagato dai contribuenti. Ma anche perché il caso Inpgi è emblematico per capire l’Italia dei privilegi corporativi, delle diseguaglianze e dei conflitti d’interessi, in quanto coinvolge la minoranza meglio retribuita della categoria che ha il dovere di denunciare proprio queste anomalie.

L’origine dell’attuale crisi dell’Inpgi risale agli anni ’90, quando iniziarono i tagli alle pensioni per evitare l’insolvenza futura della previdenza pubblica. Ordine (Odg) e sindacato unico (Fnsi) dei giornalisti – per difendere il regime privilegiato del fondo autonomo (dei soli dipendenti) – pretesero dal governo la privatizzazione. In questo modo evitarono di  tagliare e mantennero rendite alte con tanti altri privilegi (sussidi di disoccupazione, pensioni anticipate per cinquantenni, mutui agevolati, prelazioni su case in affitto, ecc.).

Ma il passaggio nel privato impegnava anche a rinunciare alla garanzia dello Stato, che avrebbe coperto solo l’importo della pensione sociale minima in caso di insolvenza futura dell’Inpgi. Quando il Corriere della Sera informò su questo alto rischio, da Odg & Fnsi replicarono irritati garantendo la solidità del loro fondo da privatizzare. I dirigenti di aziende industriali, invece, insorsero contro il loro sindacato, che voleva uguale privatizzazione del fondo Inpdai. E gli imposero la retromarcia per non perdere la garanzia dello Stato sulle proprie pensioni.

Inciucio in agguato

Sindacato e ordine dei giornalisti, al contrario, arrivarono a un clamoroso sciopero nazionale per accelerare la privatizzazione e difendere rendite medie tra le più alte d’Italia. A iscritti Inpgi preoccupati dal rischio futuro di insolvenza veniva sussurrato informalmente “l’asso nella manica”: un antico “inciucio”, che consentiva a leader politici e a tanti altri parlamentari di centro, destra e sinistra di essere dichiarati dall’ordine “giornalisti professionisti” (dopo un periodo nei loro organi di partito finanziati dallo Stato) e maturare una pensione aggiuntiva con contributi figurativi (gratuiti). “E quei politici non ci salverebbero, perdendo l’occasione di poter cumulare una ricca rendita con il vitalizio parlamentare?”, era la furbesca rassicurazione fatta circolare tra i giornalisti con il richiamo di tenerla riservata.

A chi non voleva rischiare una futura insolvenza dell’Inpgi, il governo concesse l’opzione di passare all’Inps: cioè la pensione dei comuni cittadini, ben più bassa ma meno insicura. Pochi però lasciarono quel Bengodi. Quasi tutti preferirono la scommessa speculativa ad alto rischio del “privato”.

Malcostume italico

La crisi però poi ha colpito duro sui media. Tanti giornali sono stati affossati dalla poca libertà di stampa (in Italia è a livelli da Terzo Mondo secondo le classifiche internazionali), da una informazione condizionata da proprietà in conflitto di interessi e da “pubblicità & marketing”, da continui prepensionamenti e tagli di costi. Gli stipendi alti dei giornalisti e i relativi contributi si sono ridotti sempre più. E l’Inpgi, erogando tante “pensioni d’oro”, ha perso 560 milioni in tre anni. Ora si parla di rischio insolvenza.

I giornalisti dipendenti giovani, che non hanno avuto il diritto di opzione come al tempo della privatizzazione (e ormai maturano pensioni basse simil pubblico), potrebbero essere salvati facilmente con il trasferimento dei loro contributi all’Inps. Ma i pensionati e i pensionandi, che scommisero sui vantaggi del “privato”, dovrebbero accettare una drastica riduzione delle “rendite d’oro” – sulla base di quanto l’Inpgi può permettersi oggi di pagare – e, in caso di insolvenza, la pensione minima nel pubblico.

Così implorano l’aiuto del governo Draghi e dei politici. Ma non dovrebbero rendere noti fin nei dettagli gli “inciuci” con i “parlamentari giornalisti”, che sarebbero in conflitto d’interessi se aiutassero (anche se stessi) nel salvataggio? Perché non si aiuta, invece, la massa dei precari sfruttati dagli editori con pochi euro ad articolo? E, soprattutto, non spetta ai contribuenti decidere se farsi carico delle “pensioni d’oro” dei giornalisti Inpgi, che sembrano aver attuato il malcostume italico dei profitti da privatizzare, quando si ritenevano ricchi privilegiati, e del voler scaricare sul pubblico, quando la loro scommessa speculativa è finita in perdita?

Ivo Caizzi
ivo.caizzigm@gmail.com
Twitter @sbavaglio

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