Marilù Mastrogiovanni
8 marzo 2021
Nel mondo il 73 per cento delle giornaliste ha subito violenze online legate al proprio lavoro, lo dice UNESCO in un recente rapporto.
In Italia, il 48,21% dei tweet riguardano messaggi di odio contro le donne. E’ il risultato del monitoraggio del centro di ricerca SWAP, dell’Università di Bari, con Vox diritti e l’Osservatorio di Pavia. Immaginate: quasi la metà dei tweet in Italia servono per esprimere odio e violenza verso le donne.
Immaginate: ogni giorno, tutti i giorni, un esercito di 12,8 milioni di persone – tanti sono gli utenti Twitter in Italia – che nell’ombra spara proiettili contro le donne. I proiettili del linguaggio dell’odio on line non sono mai a salve.
Fanno male. Hanno conseguenze per chi ne è bersaglio, quasi mai per chi preme il grilletto. Voglio parlare di questo, l’8 marzo. Perché il fenomeno dell’odio online verso le donne è in crescita: i tweet contro le donne sono raddoppiati nel 2020, rispetto all’anno precedente: il lockdown infatti ha colpito il genere femminile in ogni settore.
E’ il frutto della cultura patriarcale e misogina che sottotraccia prolifera nel mondo e che durante la pandemia si è acuita. Le donne dunque hanno pagato il prezzo più alto. Guardiamo all’Italia:
perdita del lavoro: il 98 per le donne di chi ha ha perso il lavoro nel 2020 è donna (fonte Istat);
violenze domestiche: nel 2020 sono aumentate del 73per cento le chiamate al 1522, il numero rosa contro le violenze di genere (fonte Istat);
hate speech on line: i tweet violenti contro le donne passano dal 26,27 per cento al 48,21 per cento (fonte: Mappa dell’intolleranza on line, Vox diritti, Osservatorio di Pavia, centro ricerca SWAP, Uniba);
femminicidi: 111 nel 2019 e 112 nel 2020. Con la differenza che durante il lockdown il 100 per cento delle donne è stata uccisa per mano di un familiare.
E’ in atto una guerra tra uomini e donne. E’ una guerra in cui sono le donne a soccombere. Dobbiamo dirlo, perché se non lo diciamo a chiare lettere sembra che questa roba della parità di genere, della gender equality, sia solo “roba da femmine”. Un problema tutto nostro che si può tranquillamente ignorare con un’alzata di spalle, convincendoci che non ci riguardi. Invece, per l’Onu è uno dei 17 goals, il quinto, da raggiungere entro il 2030 per vivere in un mondo sostenibile.
Dobbiamo dirlo che c’è una guerra in atto.
E’ una guerra in cui se ci sono due poltrone, gli uomini cercheranno di occuparle entrambe. E’ molto semplice: è una questione di potere.
Potere fisico (banalmente?), economico, contrattuale, politico.
Gli uomini hanno occupato gli spazi in millenni di dominazione: siamo state fisicamente, politicamente, culturalmente dominate, cioè vittime di una colonizzazione maschile.
La cultura dominante è quella patriarcale, che stabilisce l’ordine naturale delle cose. E l’ordine naturale delle cose è che una donna sia sottomessa, guadagni meno, sia sempre un passo dietro. Sempre dietro ad un grande uomo.
Detto così fa orrore, alle donne, che non vogliono ammettere di essere strette nelle maglie della cultura dominante; fa orrore agli uomini, anche ai più progressisti e femministi, che non vogliono ammettere di essere stati, fin da bambini, addestrati a perpetuare quella cultura. Bambini e bambine, vittime inconsapevoli.
Oggi, servono ancora analisi: è vero, quelle quantitative ci restituiscono l’entità del fenomeno.
Sappiamo per esempio che la metà del traffico su Twitter è usato per esprimere odio verso le donne, poi, al secondo posto ci sono gli ebrei, poi i migranti, infine gli omosessuali. Ma servono analisi qualitative per capire quali frasi dette dalle donne e quali figure di donna inneschino la reazione violenta. Noi lo sappiamo già per esperienza diretta.
Sono le donne eretiche, quelle che vanno messe al rogo e fatte bersaglio dei proiettili d’odio. Sono le donne che esprimono un potere diverso da quello maschile, quelle più colpite. La parola, e la conoscenza, sono il potere più eretico di tutti. Non ha a che vedere col denaro, né con la posizione, ma con il potere di conoscere e poter esprime liberamente quello che si sa.
Questo “potere”, verbo, non sostantivo, è proprio di chi “può”, con la parola, autodeterminarsi. E in questa autodeterminazione, “può” affermare la propria e altrui identità, quella delle altre sorelle, come “altra” rispetto al “potere” (sostantivo) dominante, quello maschile.
E’ una ribellione, un’eresia, che capovolge il piatto, l’ordine costituito, tirandosi dietro maschi e femmine, senza compromessi. Nell’eresia non ce ne sono. O si condivide la scelta di cambiare l’ordine naturale delle cose, o si “è” “ordine naturale delle cose”.
Quando una donna esprime questo “potere” (verbo), si mette in atto immediatamente un tentativo di ghettizzazione e segregazione, perché torni al suo posto, lì dove è sempre stata.
Si ridicolizza, si denigra, si infanga, si minaccia, si offende.
Ecco perché le offese hanno soprattutto carattere sessuale, sono oscene: la donna deve rimanere all’angolo, nella sua funzione primaria, cioè riproduttiva e di oggetto sessuale al servizio dell’uomo.
Una giornalista che scrive di politica o di mafia o di esteri, o di migrazioni, è “troia”.
Una ricercatrice universitaria che parla dei rifugiati palestinesi, è “puttana” e si ritrova, mentre parla ad un convengo on line, con un pene disegnato in faccia. Guardate che cosa è successo a Francesca Albanese, associate scholar presso l’Università di Georgetown: sta partecipando ad un convegno con altri accademici; la sua relazione si svolge senza intoppi, fino a che non parla della questione, spinosa, dei rifugiati palestinesi.
Il fenomeno si chiama zoombombing ed è un vero e proprio attacco hacker: ci si infiltra in una conferenza on line per comprometterne il buon andamento. In questo caso, oggetto dell’attacco è proprio la ricercatrice, donna, che per di più presenta il suo libro, frutto di quattro anni di lavoro, su un argomento doloroso e controverso per il nostro occidentale.
Quando i fenomeni di segregazione e ghettizzazione di cui abbiamo parlato sopra riguardano le donne, sono un freno verso l’attuazione della democrazia paritaria, oltre che un danno all’economia e alla sostenibilità dello sviluppo del Paese. Ma quando questi fenomeni riguardano le giornaliste, rappresentano un ostacolo all’autodeterminazione della libertà individuale di ciascuno, perché le giornaliste tutelano il diritto umano fondamentale dell’informazione e della conoscenza.
Ecco perché le minacce verso le giornaliste riguardano tutti e tutte e riguardano la vostra libertà di conoscere, dunque di essere liberi e libere da ogni potere (sostantivo).
E’ questo che dà più fastidio.
Marilù Mastrogiovanni
Leave a Comment