Sigfrido Ranucci, quando il giornalismo di inchiesta provoca una condanna a morte

Speciale per Senza Bavaglio
Valerio Boni
Milano, 24 gennaio 2021

Il mestiere di giornalista, di chi lo fa seriamente, è anche questo: scoprire intervistando una persona di avere sulla testa una condanna a morte. Una minaccia non certo campata in aria, se si considera che arriva dalla famiglia Madonia, una “garanzia” in ambiente mafioso. Una scoperta da far tremare i polsi, quella vissuta pressoché in diretta da Sigfrido Ranucci, che dal 2017 ha raccolto il testimone da Milena Gabanelli per la conduzione di Report, la trasmissione più scomoda della TV di Stato.

Un rischio che corre chi si occupa di argomenti spinosi e non di scoprire i segreti della farfalla tatuata di Belen o della contorta vita privata di presunti e annoiati vip. Da coautore di Report Ranucci ha seguito più di un’inchiesta dai contorni scabrosi e coraggiosamente svelato i contorni di faccende che hanno coinvolto personaggi eccellenti e intoccabili. Ha avuto anche l’ardire di pubblicare un libro, “Il patto”, scritto a quattro mani con Nicola Biondo.

Un volume che svela i segreti della trattativa tra Stato e mafia mettendo in sequenza i racconti inediti di un infiltrato, che di fatto ha “inguaiato” la posizione degli esponenti della famiglia Madonia in carcere. Un intrigo tra mafia, servizi segreti e massoneria deviata che ha generato profitti e omicidi eccellenti e, come danno collaterale, una taglia sulla testa di Sigfrido Ranucci.

La minaccia risale al 2010, anno di pubblicazione del libro, ma Ranucci lo ha scoperto cinque anni più tardi, quando nel corso di un’intervista il pregiudicato Francesco Pennino gli ha comunicato che qualcuno “aveva intenzione di fargli del male”. Mezze parole, che nel corso della registrazione sono chiarite, specificando che il “male” era un’esecuzione capitale ordinata dai siciliani, e più nello specifico dai Madonia, con i quali Pennino ha condiviso un periodo di reclusione. Un ordine non eseguito perché da “fuori” l’iniziativa è stata stoppata.

La mafia ha infatti un rigido codice, che tra le varie regole prevede che i progetti di chi è in carcere debbano essere approvati da chi è in libertà. E in questo caso lo stop è stato imposto da Matteo Messina Denaro, non perché avesse una particolare simpatia per i giornalisti di Report, ma perché il particolare momento consigliava di evitare di fare troppo rumore. Finiti gli anni delle dimostrazioni di forza, in stile Capaci, anche la mafia nel nuovo millennio era passata a un profilo più basso, in grado di assicurare risultati migliori, senza suscitare risposte e indagini di Stato.

I 50 minuti di intervista sono rimasti chiusi in un cassetto fino a qualche settimana fa, quando Ranucci ha scoperto che queste dichiarazioni di Pennino non erano state inserite nel fascicolo dell’inchiesta, quindi non secretate. I passaggi chiave della registrazione sono stati inseriti in 130 minuti di trasmissione che hanno ripercorso 40 anni di storia e di intrighi del nostro Paese. Con una media di ascolti di tre milioni, che l’autore-conduttore di Report giudica “la curva della speranza per un argomento a torto giudicato non più d’attualità, che dopo 28 processi sulle stragi ci ha lasciato senza una verità”.

Ranucci è oggi sereno, considera quella minaccia esaurita nel momento in cui è arrivato lo stop “dall’esterno”, un incidente che considera alla stregua delle oltre 175 querele raccolte negli anni, che non hanno fermato il lavoro di inchiesta. “Per chi fa giornalismo d’inchiesta – sostiene – è importante farlo in libertà, ma soprattutto sentirsi liberi di farlo”. Quel che manca, però, è spesso la solidarietà sincera, una qualità insolita, che arriva quasi unicamente dai colleghi. Naturalmente da chi quotidianamente scava nei campi di furbi e corrotti, una razza sempre più rara, se si considera che le edicole sono affollate di testate di gossip, simili tra loro per grafica e contenuti.

Chi si occupa di inchieste in TV deve anche fare i conti con la questione della responsabilità civile per i giornalisti della Rai che, a causa della specifica natura giuridica del Servizio Pubblico, rischiano – unico caso italiano – di dover pagare di tasca propria querele ricevute nell’esercizio della loro professione. L’azienda assicura infatti l’assistenza legale, che si limita al patrocinio in tribunale, perché nel malaugurato caso un giudice riconosca un reato di diffamazione o calunnia, le spese sono tutte a carico del giornalista.

Valerio Boni
valeboni2302@gmail.com
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