Molti giornalisti, tra cui Gad Lerner e Enrico Deaglio, per citarne solo due,
hanno lasciato Repubblica ritenendo che il nuovo corso snaturerà l’anima del quotidiano
fondato da Eugenio Scalfari. Michele Serra invece ha pensato di restare
motivando la sua decisione con giustificazioni che ci hanno sorpreso
perchè considerano ineluttabilela figura dell’editore-Padrone.
Enzo Marzo ha inviato a Michele Serra questa lettera aperta
che ci saremmo aspettati fosse pubblicata sulla sua Amaca.
Putroppo però non è comparsa. Bene, eccola qua assieme alla richiesta di spiegazioni
da parte di un lettore, Nicola Purgato, e la risposta di Serra.
Speciale per Senza Bavaglio e per Critica Liberale
Enzo Marzo
Roma, 4 giugno 2020
Caro Michele, la motivazione della tua permanenza a “Repubblica” non solo non mi ha convinto, ma credo che sia corruttrice della mentalità delle nuove leve del giornalismo e dei lettori. Fattelo chiarire da un vecchio giornalista del “Corriere della sera”, che ne ha potute vedere di cotte e di crude durante i suoi 46 anni di lavoro. Naturalmente non entro nella tua scelta personale, più che legittima e conforme alle tendenze attuali. (Trovo però una penosa caduta di stile quando scrivi che «nessuno mi ha chiamato per propormi alcunché», il che distrugge tutte le tue argomentazioni precedenti e successive. Ma questo è un particolare).
Né discuto la tua considerazione sul nuovo Direttore, che va giudicato sul campo di battaglia, anche se mi sembra una lacuna non notare che Molinari non è un semplice Direttore di testata, ma è anche Direttore editoriale di tutto il Gruppo Gedi, e quindi protagonista e gestore della più grande operazione di concentrazione della stampa nella storia repubblicana. Il paragone con la “Stampa” degli Agnelli mi pare troppo riduttivo.
Ugualmente mi sembra che non corrisponda totalmente al vero il ricordo che tu hai della linea politica di “Repubblica” dopo il brusco cambiamento di Direzione quando inaspettatamente vi fu paracadutato addosso Calabresi. Il mutamento di linea fu altrettanto sbrigativo: persino il Fondatore si adeguò e negli ultimi sei mesi, un passo a settimana, traslocò dalla linea del No referendario al supino Sì a Renzi.
Le redazioni – lo sai meglio di me – si adeguano e anche le Firme Fondatrici, salvo troppo rare eccezioni. Anche adesso lo slogan “la Repubblica siamo noi” è solo retorica, comprensibile – certo – perché ognuno deve pur darsi una giustificazione, ma purtroppo la “Repubblica”, per usare il tuo linguaggio, è del Padrone.
E qui arrivo al nocciolo. Perché la tua motivazione è dannosissima? Perché impone ai giornalisti e ai lettori l’ineluttabilità della figura dell’Editore come il Padrone, perché pone come un fatto fatale che la struttura industriale nell’editoria non possa che essere quella che domina oggi nel nostro Paese. Già i nuovi giornalisti non conoscono neppure quanti loro diritti sono stati smarriti negli anni e non sanno neppure quali. Sono ricattati dal precariato. I lettori, poi, non hanno alcun diritto, come invece hanno altri consumatori, nei confronti del prodotto che acquistano.
Da qui l’aggravamento irreversibile del degrado mortifero dell’informazione attuale, cui si aggiunge il mutamento della stessa figura del Direttore, sempre più servile verso pseudo Padroni-editori palazzinari, traffichini in cliniche, gruppi industriali assetati di potere comunicativo, e quant’altri.
Questi, anche con i soldi pubblici, mirano solo a indirizzare la politica e aumentare i loro potere di pressione. Cose vecchie e note. Non c’è alcuna separazione tra i poteri politici, economici e mediatici, con il risultato che abbiamo davanti agli occhi. Però non mi confondere con coloro che sono infatuati dell’idea dell’Editore “puro”, animale mitologico inesistente. Ugualmente non insisterei troppo sul fatto che se esiste un Padrone i giornalisti sanno dove attaccare l’asino.
Forse non lo sai, ma in mezzo mondo non da oggi si stanno studiando i problemi del monopolio informativo, della propaganda, di possibili strutture editoriali che aboliscano o neutralizzino il Padrone. Già lo si faceva dai tempi di Albertini. Da decenni in alcuni Paesi si sono realizzate riforme radicali in alcuni vettori informativi. C’è moltissimo da apprendere, da progettare, da realizzare.
Ciò che è certo è l’organizzazione editoriale attuale, salvo virtuose eccezioni, non solo è liberticida ma anche suicida: la carta stampata ha un futuro solo se con l’autorevolezza e la vera competenza acquisisce un valore aggiunto rispetto all’immondizia che ingolfa il web. La corda al collo dei giornalisti in mano al Padrone non dà certo autorevolezza agli occhi dei lettori. Quindi, né i Padroni né i giornalisti ancora non hanno capito bene che l’asino così sfruttato è destinato a morire molto presto.
Cerca di non lavorare per il passato. Un abbraccio,
Enzo Marzo
direttore di “Critica liberale”
Michele Serra risponde ai lettori: perché resto a Repubblica
La rubrica “Per posta” sul “Venerdì”
28 maggio 2020
«Caro Michele, non ho mai perso una tua Amaca. Si contano le pochissime volte che ho dissentito da te, ma veniamo al sodo. Come nel film di Forman, Jack Nicholson dice al Grande capo: che ci facciamo noi qui, Grande capo? Ecco, che ci fai ancora lì, a Repubblica intendo? Che ci fate tu, Merlo, Augias, De Gregorio, Rampini e aggiungi chi vuoi? Sembrate bei quadri appesi in un’abitazione che non è stata pensata per voi. Quello non è più posto per voi. Siamo in tantissimi a pensarla così. Insieme a Lerner, Deaglio, da qualche altra parte, ricominciate, per favore. Vi seguiremo di sicuro».
Nicola Purgato
Caro Nicola, scelgo la tua lettera, per la brevità e la precisione polemica, in rappresentanza delle tantissime sul tema “che succede a Repubblica”. A quasi tutte sono riuscito a rispondere privatamente. Non l’avevo ancora fatto in questa rubrica perché il lasso di tempo (otto giorni) che trascorre tra la sua stesura e la sua pubblicazione è lunghissimo; temevo, insomma, che il succedersi dei fatti rendesse superate, una settimana dopo, le mie parole. Ora spero che le cose si siano un poco assestate. Scrivo questa nota venerdì 22 maggio sperando che quando le leggerete, il 29 maggio, non sia accaduto niente di così clamoroso da renderle “vecchie”.
La prima cosa da dire è che ho totale rispetto per la scelta di Lerner e Deaglio. Sono entrambi grandi giornalisti e il primo è, per me, tra gli amici più stretti. La seconda cosa da dire è che pretendo identico rispetto – non un grammo di meno – per chi ha scelto di rimanere in un giornale che considera casa propria, punto di riferimento per un numero di lettori ancora importante nonostante la crisi dell’informazione a pagamento ne assottigli i ranghi mese dopo mese.
Quelli che rimangono, dunque. Sto parlando non solo del Fondatore e di Ezio Mauro, direttori dei primi quarant’anni di Repubblica. Ma di tutte le firme storiche (Augias, Aspesi, Valli per citare solo alcuni dei “senatori”) e di quelle raccolte strada facendo, Altan, Baricco, Rumiz, Merlo, Recalcati, Saviano, io stesso e molti altri.
Non faccio vita di redazione e dunque non ho il polso del “corpo vivo” del giornale, delle assemblee, dei malumori, delle voci di corridoio. Ma ci siamo parlati molto, in queste settimane, specialmente dopo il licenziamento, traumatico nei tempi e nei modi, di Verdelli, e dopo l’addio di Lerner. Ha prevalso l’opzione “Repubblica siamo noi”, che prevede di continuare a fare il nostro lavoro come l’abbiamo sempre fatto, e dunque di confrontarci con Maurizio Molinari nello stesso identico modo con il quale ci siamo confrontati con i precedenti direttori. Non considerandolo pregiudizialmente un “invasore”, o un corpo estraneo, ma il nostro primo interlocutore, come legittimamente è ogni direttore.
Le discussioni quotidiane sulla fattura del giornale, sulla sua linea politica, sulle ambizioni (e sulle vanità) delle “grandi firme” sono il suo mestiere, la sua croce e la sua delizia. Spetterà a lui conquistare sul campo, oppure no, la fiducia dei giornalisti e dei lettori. Sa benissimo di trovarsi di fronte a una platea consolidata e agguerrita. Molti temi, soprattutto di politica internazionale, saranno occasione di acceso dibattito (una per tutte: le imminenti elezioni politiche americane, nelle quali il match populismo-democrazia vivrà una pagina decisiva).
Vorrei ricordare ai lettori, a questo proposito, che nelle più arroventate questioni politiche recenti (i referendum di Renzi, per esempio), Repubblica non ha avuto, e per fortuna, una “linea” univoca, da quotidiano di partito. È stata sede di un dibattito vero, acceso e ampio, con i commentatori divisi tanto quanto i lettori.
Quanto all’editore. Ogni editore è ingombrante, e quello attuale, che è una multinazionale con radici italiane, ma trazione mondiale, lo è ancora di più. I miei editori, per la cronaca, sono stati, in quasi mezzo secolo di giornalismo, il Partito comunista (il più ingombrante di tutti), il gruppo Espresso, la mitica “Cuore corporation” fatta in casa, la multinazionale televisiva Endemol e la multinazionale americana Condé Nast.
Il solo editore che ho rifiutato a priori, per mia irriducibile ostilità, tra l’altro molto precedente la sua “discesa in campo”, è Berlusconi. Per il resto non mi sono fatto mancare niente, né mi sono sentito ingabbiato da alcuno, anche se spesso, come in ogni mestiere capita, ho vissuto conflitti, frizioni, incomprensioni, delusioni. Non vedo perché dovrei rifiutare a priori, come editore, un Agnelli.
Dalla direzione della Stampa, proprietà di famiglia ben prima dell’acquisto di Gedi (e ci scrivevano Bobbio, Galante Garrone, Barbara Spinelli, Carlo Petrini) provengono due direttori di Repubblica, Mauro e Calabresi. Molinari è il terzo. Lo stesso Lerner è stato vicedirettore della Stampa per qualche anno.
Nessuno ha mai pensato che “lavorare per gli Agnelli” abbia significato, per loro così come per altri, vendere l’anima, o come direi al bar, il culo.
Chiedo a voi lettori, con una certa decisione, mettendo sul piatto anche il mio quasi mezzo secolo di reputazione, di non pensarlo adesso. Giudicate il giornale da come sarà fatto. Se non vi piace più, trovatene uno migliore, ne avete facoltà. Punto.
Ogni editore è un padrone. Valeva anche per la famiglia De Benedetti, alla quale tutti noi di Repubblica riconosciamo, nella difesa dei propri interessi extra-editoriali, una sostanziale discrezione. Quanto al nuovo padrone, e al direttore da lui insediato, vi rimando alla collezione delle ultime due settimane di Repubblica per stabilire se sulla vicenda, nevralgica, governo-Fca, il giornale sia stato imbavagliato oppure abbia dato ampio spazio (vedi l’intervista a Orlando, le cronache politiche quotidiane, le risposte di Augias ai lettori) alle polemiche e alle critiche, compresa quella – sostanziale – sul “domicilio fiscale” di Fca in Olanda.
Da ultimo, una nota personale. Non saprei su quale altro giornale scrivere per due ragioni fondamentali. La prima è che non ne conosco altri che mi siano ugualmente familiari, e idealmente vicini. La seconda è che nessuno mi ha chiamato per propormi alcunché, e questo mi fa sperare che, a quasi sessantasei anni, nel caso venisse meno il mio lavoro di giornalista potrò serenamente invecchiare dedicandomi alla letteratura, al teatro e all’agricoltura. Quanto mi basta, ampiamente, per campare, e soprattutto per essere felice.
“Venerdì” di “Repubblica”, 29 maggio 2020
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