Oggi è il primo maggio. Chiusa in casa da due mesi con i miei figli, ragiono sul mio lavoro, quello che ho scelto, che amo e che faccio da diciassette anni. Il bilancio è amaro, per me, come per tutti i colleghi privi di una qualche forma di contratto. “Spade libere”, ci chiamano, freelance, ma la nostra non è vera libertà perché se pure il nostro spirito è indipendente, gioioso, curioso, le condizioni economiche, e insieme morali, a cui sottostiamo ci privano della vera emancipazione.
Da quando ho iniziato a lavorare, la situazione è peggiorata costantemente. Per chi ha cominciato a lavorare alla fine degli anni Novanta o nei primi anni Duemila l’assunzione era già un miraggio, ma almeno esistevano ancora contratti di collaborazione e comunque i pezzi erano ancora pagati. Cento, ottanta euro, cifre che non consentivano una reale autonomia ma almeno un rimborso della fatica. Poi i contratti di collaborazione sono spariti, così come gli articoli 2 e tutte le forme di “fisso”.
Agli editori conveniva troppo pagare a pezzo (a cottimo, si diceva una volta, ndr), nessun onere sociale, welfare, contributi, ferie, nulla di nulla. D’altronde, se la legge in teoria non glielo consentiva, glielo consentivano i sindacati, del tutto indifferenti allo sfruttamento dei precari autonomi. Le cause giudiziarie erano poche, i freelance divisi, oggi come ieri. Chi andava in Tribunale smetteva di lavorare. Così si è potuto continuare a tagliare e tagliare, bastava una email, e via, con i comitati di redazione indifferenti.
Nel frattempo al cartaceo si affiancava il digitale, arrivato senza mediazioni riflessive. Contenuti dati gratuitamente, abituando il pubblico all’informazione gratis. Per ora, tanto, era un mondo di serie b, il cartaceo era ancora il regno dei direttori, delle grandi firme, degli editorialisti di grido. Ma poi progressivamente tutto è cambiato. Le copie cartacee scendevano, i clic aumentavano, ma la pubblicità era scarsa e portava poco denaro. Così i rapporti di forza si sono fatti ancora più aspri. I collaboratori meno prestigiosi, ma quelli che riempiono il giornale, non le rubriche, hanno visto non solo il compenso, ma anche lo spazio, ridotti. La maggior parte si è rivolta ai siti web, dove il lavoro c’era e c’è ancora, e tanto, ma gli articoli pagati cifre ridicole.
Così siamo arrivati ad oggi. Nulla è cambiato per noi, nonostante le redazioni siano sempre più magre e i collaboratori sempre di più. Le nostre proposte pensate, curate, sono spesso ignorate, lasciate senza risposta. Le poche invece prese in considerazione lo sono solo attraversando trafile estenuanti. Almeno sui blog si può scrivere liberamente, senza mediazioni spossanti, ma in cambio si riceve nulla, sono gratuiti.
Le opinioni non si pagano, sostengono autorevoli giornalisti pronti a retribuire (e bene!) gli editorialisti della carta, che scrivono pure opinioni. Gli editori, ma anche i direttori, sempre più fanno proprio un principio perverso eppure ormai diffuso: quello per cui il compenso dei collaboratori è la visibilità. “Noi ti diamo visibilità”, sui nostri canali, i nostri social. Visibilità e mancia, e questo nonostante non si transiga mai sulla qualità. I pezzi inviati devono essere ricchi, con notizie, dati, interviste, tutto.
Oggi, primo maggio, dopo diciassette anni di lavoro, il mio reddito è inferiore a 5000 euro lordi all’anno. E questo nonostante lavori tutti i giorni, anche il sabato e la domenica, se serve. Con un reddito così diventa difficile essere credibili, anche agli occhi delle persone con cui vivi, dei tuoi parenti. Perché comunque se lavori, come lavorano i freelance, hai bisogno di aiuti se hai bambini da guardare, baby sitter, così come qualcuno che aiuti nelle pulizie. Ma tutti si chiedono perché tu continui a lavorare, nonostante i tuoi compensi non coprano neanche quello che paghi per gli aiuti.
Fare un giornale è una cosa complessa, il giornalismo è una cosa complessa. Come ho scritto spesso, i colleghi dipendenti non fanno una bella vita, lavorano tantissimo, sono stremati, demotivati, spesso diventano cinici. I direttori sono assediati di richieste, affaticati anch’essi. Quello che rimprovero loro non è tanto la situazione in cui versiamo, ma la mancata consapevolezza di questa situazione nel momento in cui si entra in contatto. Così come la totale mancanza di un’etichetta minima nei rapporti umani, la risposta ad una mail, il saluto per Natale, cose minime, che a noi mancano. Perché noi siamo fantasmi, anche se professionisti, anche se facciamo un lavoro con valore civile e morale, perché diamo voce alla società sofferente, quella che grida, chiama, quella che preme, che ci chiede di scrivere di quella condizione trascurata, di quel problema ignorato.
Solo per questo, forse, andiamo avanti, nonostante – anche – le palesi ingiustizie che si compiono all’interno dei nostri stessi giornali, con collaboratori pagati immotivatamente tantissimo, con differenze di trattamento, con vere e proprie assurdità e privilegi. Ma tutto ciò non basta più ed è doloroso spiegarlo anche a chi ti supplica di scrivere su quello che gli sta accadendo.
L’unica strada possibile, anche per noi, è il cinismo. Continuare a scrivere sui nostri giornali solo per i vantaggi secondari, entrare facilmente in contatto con chiunque, avere una rassegna stampa, per chi ce l’ha, potersi dire giornalisti di un certo quotidiano. Nel frattempo, cercare altri mondi, altre strade. Perché ormai, noi lavoriamo unicamente per restare nel mercato del lavoro, non più per guadagnare. Questa, il giorno del primo maggio, è la verità sul nostro mestiere.
Cronista Furiosa
lacronistafuriosa@gmail.com
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