Freelance: ma che giornalismo è mai questo senza un sindacato che ci difenda?

Speciale per Senza Bavaglio
La Cronista Furiosa
Milano, 31 dicembre 2019

Scrivo senza rivelare la mia vera identità. Al momento non posso permettermelo, perché anche se perderei poco, quel poco per me è tanto. È stato detto in questi giorni, in cui coraggiosi freelance hanno sbattuto la porta in faccia a molti illustri giornali, denunciando l’impossibilità di una vita professionale e privata degna di questo nome, che chi continua a scrivere per pochi euro o è un ricco mantenuto da qualcuno o è un complice del sistema. Non è così.

Anche se ritengo che il più grande errore dei giornalisti freelance sia stato restare frammentati, non aver mai avuto il coraggio di organizzare uno sciopero che avrebbe fatto letteralmente saltare l’uscita di quotidiani e riviste che su di loro si reggono, sono convinta che non si possano confondere vittime e chi ha reso le persone tali. Ovvero, scuramente, gli editori, anche se la colpa non è solo loro, o meglio non di tutti in maniera indistinta e con gravità molto diverse.

Il problema è molto più grande, purtroppo. È un sistema ormai generalizzato che colpisce milioni di lavoratori senza diritti, tutele, senza presente e futuro. La differenza, però, rispetto a noi giornalisti, spesso accusati da gente che nulla sa di noi sui social network o sui siti di essere gente ricca e privilegiata, è che dei lavoratori sfruttati spesso i giornali scrivono: dei rider, categoria che ha avuto il privilegio di grandi attenzioni mediatiche e pure istituzionali. Dei braccianti dei campi, piuttosto che di altri lavoratori a termine e sottopagati. Invece della situazione drammatica dei giornalisti, tranne un coraggioso servizio di Presa Diretta, nessuno ha parlato. Perché i giornali certo non vogliono mettere in piazza le proprie stesse colpe, non vogliono esporre le proprie mancanze.

Eppure noi freelance guadagniamo spesso quanto un coltivatore di pomodori. No, non è uno scherzo, anche lo facciamo comodamente da una scrivania. Se dividiamo le ore lavorate per la cifra che prendiamo il risultato è lo stesso. In questi lunghi anni di lavoro per noi non c’è stato nessun progresso, nessun aumento di tutele di nessun tipo (tranne, va detto, la possibilità di usufruire gratuitamente di una versione più minimale della Casagit, introdotta da poco).

Questi anni sono stati un precipitare verso il baratro, con compensi continuamente tagliati, senza neanche essere avvisati. Troppe volte ci siamo ritrovati a guadagnare improvvisamente il 25 per cento in meno, tanto per dire, senza neanche saperlo. Pensate se fosse successo a un giornalista assunto regolarmente, trovare la sua busta paga decurtata del 25 per cento. Ci sarebbe stato lo sciopero, sindacati infiammati, giornali e siti chiusi.

Invece su di noi si può fare tutto. Ridurci a lavorare per pochi euro, e che siano 5 o siano 25 o siano 55 la differenza non è poi tanta. Perché dipende dal tipo di articolo che ti viene chiesto di scrivere. Una breve per dieci euro è una vergogna, ma un’inchiesta per 50? Quanto tempo ci vuole a fare un’inchiesta? Una settimana, due? E se dividi 50 euro lordi, da cui togliere tasse e pure contributi obbligatori, per sette giorni, cosa resta?

L’indifferenza colpevole del sindacato

Varie sono le cose che mi hanno ferito in questi lunghi anni di un lavoro molto amato, quasi una vocazione. Sicuramente, l’indifferenza colpevole dei sindacati verso di noi. Siamo stati da loro totalmente ignorati e anzi colpiti proprio nelle sedi in cui dovevano invece proteggerci.

Come quando si fece il primo accordo sull’equo compenso, nel 2014, col governo Renzi, sottosegretario all’editoria Lotti, e si stabilirono come eque e giuste delle cifre – 250 euro lorde al mese, ad esempio – che lo stesso Ordine dei giornalisti, che votò contro, definì compensi da fame.

La Federazione Nazionale della Stampa, il sindacato che avrebbe dovuto difenderci, siglò questo accordo indegno con gli editori. Accordo che venne definito non valido dal TAR, che ordinarono al governo di provvedere a un nuovo accordo.

Eppure, al momento in cui scrivo, non c’è nulla di fatto, e se anche in teoria in assenza di norme definite bisognerebbe applicare le tabelle dell’Ordine, le uniche che davvero definiscono compensi dignitosi per un articolo o un reportage, gli editori continuano ad applicare compensi bassissimi stabiliti dal “mercato”. Ovvero, da loro stessi.

La cosa grottesca di questa vicenda è che ora i conti dell’istituto pensionistico INPGI sono completamente saltati, perché mancano i lavoratori in grado di pagare le ricche pensioni dei giornalisti dipendenti andati in pensione col sistema retributivo fino al 2016. Sì avete letto bene, 2016, oltre vent’anni dopo dall’accordo che introdusse il contributivo per tutti i lavoratori.

Eppure nessun giornalista ha mai scritto di questo, neanche quelli che magari scrivevano contro le pensioni dei sindacalisti e dei politici. Ebbene, ora che l’INPGI rischia il commissariamento, perché non sembra esserci nessuna soluzione concreta, il sindacato dei giornalisti ha cominciato a difendere i precari gridando a gran voce che vengano assunti. Per difendere le loro pensioni. Oggi, nel 2019.

Freelance: lavoratore perfetto

Ma non sarà la tardiva battaglia del sindacato a salvarci e a cambiare un sistema allucinante che fa sì che sui freelance si scarichino le sofferenze di un sistema che pure non rende felici i dipendenti, stressati e demotivati. Un freelance è il lavoratore perfetto perché il datore di lavoro gli paga solo il compenso, nessun onere sociale, nessuna pensione, niente malattia, nulla di nulla.

La logica vorrebbe che il compenso privo di oneri sociali fosse almeno più alto, e invece no, per essere perfetto il freelance deve anche guadagnare pochissimo. Che poi spesso siamo freelance per dire, perché molti giornali hanno cominciato ad affidarci compiti sempre più “interni” mentre selvaggiamente continuavano ad esternalizzare il lavoro. Mi sono sentita dire da un giornale patinato e molto noto che se per pochi euro mi rifiutavo di montare un pezzo, creando una gallery di foto da lavorare, e inserendo anche titoli, tag, tutto, voleva dire che ero una giornalista “vecchia, con la mentalità della carta stampata”. Fu una delle poche volte che dissi no, fu davvero troppo, me ne andai.

Ma la realtà dura è che i freelance sono destinati ad avere un presente da poveri e una vecchiaia da poverissimi, come pensioni che arriveranno nel migliore dei casi ai mille euro. Non mensili, però, annui, neanche il costo della Casagit. E neanche quella principale, un profilo minore, ovviamente.

L’altra cosa che mi è sempre ferito è in questi anni è la totale indifferenza dei giornalisti interni, spesso infastiditi dalla nostra libertà, dal nostro modo di vivere meno costretto ma solo perché privo di ogni forma di tutele. Non ricordo di essere mai stata ringraziata dai direttori via mail, o invitata a un brindisi di Natale. O quanto meno incoraggiata quando ho vissuto pericodi di versa difficoltà. D’altronde nel 2020 non esiste ancora un rappresentante dei collaboratori nel Cdr, come se noi non fossimo nulla. Né, mi pare, nessuno degli interni l’ha mai proposto. D’altronde la coperta è piccola, ed è meglio lottare solo perla propria categoria.

Il finanziamento pubblico dev’essere mirato

Dicevo però che la colpa non è solo degli editori, ma anche di una contingenza economica comunque molto grave, dove abbiamo scontato sulla nostra pelle il passaggio dal cartaceo al digitale, con l’ulteriore abbassamento dei compensi, perché le entrate pubblicitarie sono più basse e si sa, i siti sono gratis, a causa di una sciagurata politica che ha dato notizie a tutti senza far pagare nulla che solo ora comincia ad essere invertita.

Dunque certamente gli editori si trovano di fronte alla chiusura delle edicole, alla crisi del cartaceo, a un digitale ancora fragile. Benissimo, sono tutte cose che sappiamo, anche se altri giornali hanno imboccato strade coraggiose e ne sono usciti. La soluzione non ce l’ha in tasca nessuno.

Con Google, Facebook e gli altri giganti che si mangiano che guadagnano su contenuti non propri e, appunto, le persone che si sentono in diritto di avere reportage e inchieste a costo zero certo la situazione di noi esterni non migliorerà.

Personalmente, non sono del tutto contraria ai finanziamenti pubblici all’editoria, magari in maniera mirata e controllata, se questo permette un’informazione migliore. Quello che è sicuro è che non si può andare avanti così, che la soluzione, cioè, non può essere quella di avere un settore lavorativo dove non esiste nessun salario minimo, dove super professionisti sono costretti a lavorare per pochi euro. Questo non è più possibile.

Se consideriamo poi, ciliegina sulla torta, la questione delle querele, spesso temerarie, il cerchio si chiude: nessun freelance si può permettere di affrontare grandi inchieste scomode, per poche decine di euro fossero anche cento o centocinquanta. Non lo può fare perché non ne guadagnerebbe nulla, mentre al tempo stesso rischierebbe di perdere la casa in cui vive magari per una querela dalla quale non sarebbe difeso forse neanche dallo stesso giornale (c’è un disegno di legge che prevede di modificare le cose, ma ancora non è stato approvato).

Eppure i freelance ormai sono la stragrande maggioranza dei giornalisti, a fronte di un manipolo di dipendenti che si riducono di giorno in giorno. Questo significa che, oltre alle indicibili sofferenze umane – davvero una professionista può ammalarsi di tumore e restare senza alcun compenso? – esiste un macroscopico problema democratico, perché sempre meno i giornali pubblicheranno inchieste solide. Che, appunto, richiedono spalle solide e ben tutelate.

Molti di noi vanno avanti, sperando in tempi migliori, che pure sappiamo non arriveranno. Altri lasciano, diventano uffici stampa, social media manager. Tutti restano con la nostalgia di un mestiere amatissimo, che non abbiamo potuto fare veramente per tanti motivi, ma non perché non ci sia il lavoro, perché il lavoro c’è e di giornalisti c’è tantissimo bisogno, specie di questi tempi: piuttosto per l’inerzia moralmente colpevole dei sindacati, per l’avidità di alcuni, non tutti, editori, per l’indifferenza di tutti i giornalisti non freelance verso la realtà disumana di chi sta fuori. Che se ne cominci a parlare è fondamentale. Anche se le cose non cambiano, per lo meno sarà liberatorio.

La Cronista Furiosa

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