Uno sguardo ai vecchi programmi dei leader sindacali: imbonitori che vi hanno ingannato

Valerio Boni

Speciale per Senza Bavaglio
Valerio Boni
Milano 26 novembre 2018

Squadra che vince, si dice nello sport, non si cambia. Un motto scacrosanto, perché seguire un percorso sconosciuto senza alcuna garanzia di miglioramento delle condizioni attuali? Spesso prevale la scelta di conservare quel che si ha o si è conquistato, per poco che sia, invece di lanciarsi in imprese azzardate, ma il punto è proprio qui, bisogna poter contare su un minimo garantito. Almeno qualche pareggio, in assenza di vittorie, per tornare alla metafora sportiva.

Nel nostro lavoro, però, entrambi mancano da tempo, ed è difficile ritrovare anche un semplice zero a zero andando a ritroso negli anni. E negli ultimi 12 mesi lo scenario nel confronto tra giornalisti assume i contorni di una Caporetto. Per la nostra categoria, è evidente.

Quattro anni fa il programma di chi di fatto ha il controllo di FNSI era articolato su 15 punti, tre dei quali di particolare attualità, oggi ancora più di allora: retribuzione, articolo 18 e solidarietà. Il primo recitava “I nemici del giornalismo autorevole, editori in testa, predicano che noi dovremmo accettare paghe sempre più ridotte, diritti sempre meno forti, come condizione per far rifiorire le aziende e il sistema dei media. È un tentativo di indebolire i nostri contratti, per poi avere mano libera sui contenuti. Solo un giornalismo di buon livello potrà avere un futuro”.

Più che contrastare questa tendenza, l’impressione è che si sia andati nella direzione opposta a quella che il buon senso avrebbe consigliato. In 48 mesi le condizioni economiche hanno affrontato un significativo viaggio nel tempo; a ritroso naturalmente. Ne sanno qualcosa i colleghi delle testate Mondadori di Confidenze e TuStyle che la scorsa primavera sono stati costretti ad accettare un accordo capestro che prevede tagli di oltre il 30 per cento dello stipendio, siglato proprio da chi proponeva una lotta dura e senza paura proprio per scongiurare questo modo di agire. Il tutto è stato giustificato come unica via di uscita per scongiurare il trasferimento a un editore fantasma che avrebbe accompagnato i colleghi a un inevitabile oblio, come già era accaduto con la cessione delle testate di informatica a Visibilia della Santanché o prima ancora con la fallimentare operazione ACI-Mondadori, partita nel 2001 con grande sfarzo e chiusa in assoluto silenzio e con gravi perdite nel 2014.

L’occasione per rifarsi si è presentata al sindacato poche settimane fa, con l’operazione lampo (ma annunciata da tempo) della cessione del ramo d’azienda della redazione di Panorama al gruppo editoriale La Verità. In questo caso le cose sono andate ancora peggio, perché il sindacato ha dimostrato di non avere più alcun controllo della situazione.

I giornalisti sono stati abbandonati a una trattativa individuale e l’unica iniziativa degna di nota è stata limitata allo sciopero proclamato alla vigilia del trasferimento, astensione dal lavoro che ha coinvolto non più del 10 per cento dei colleghi rimasti alle dipendenze di quello che è ormai il fantasma del più grande editore italiano. E pensare che uno dei tre punti chiave del programma 2014 di Stampa Democratica (la corrente che governa la Lombarda, era proprio legato alla solidarietà e all’unità: “La crisi economica con i suoi riflessi sull’informazione sottopone tutti ad attacchi e difficoltà. Non dobbiamo cedere alle sirene dell’individualismo. Mors tua vita mea è una formula che non funziona: senza unità e solidarietà perderemmo tutti, e faremmo solo l’interesse di chi ci vuol male”.

Tornando a quegli eventi, ora è stato presentato un ricorso contro l’operazione, ma le opportunità per poter contrastare l’arroganza dell’editore non sono certo mancate. In un comunicato si chiede che la politica batta un colpo contro questo sopruso, ma dov’era il sindacato quando si avevano in mano tutte le carte per ottenere un trattamento dignitoso? Invece sono state accettate supinamente tutte le decisioni presentate, ben sapendo che andavano contro il nostro interesse e il contratto. Come l’uso incondizionato di collaboratori abusivi e stabili, alcuni dei quali nemmeno iscritti all’Ordine, l’assenza di direttori per le testate digitali, la presenza di pensionati che hanno continuato a mantenere postazione e ruolo con supercompensi fatturati a società compiacenti, persone con contratti pubblicitari che svolgono mansioni di caporedattore, e via dicendo.

Infrazioni gravi, ma rimaste impunite per la consuetudine di far preannunciare da un “uccellino” alla direzione del personale i controlli degli ispettori INPGI, così da predisporre il tutto in modo che appaia tutto regolare. Se questo non bastasse, si aggiunge l’accettazione di stati di crisi quantomeno bizzarri, visto che al personale sono chiesti sacrifici economici e questo risparmio contribuisce a generare bilanci con utili che portano bonus milionari ai manager, che si sentono anche in diritto di pensare (salvo ripensamenti dell’ultimo minuto) di tornare a distribuire un dividendo agli azionisti. Una situazione che ricorda quella dell’invalido in carrozzella che percepisce la pensione e poi va a correre sulle proprie gambe la maratona di New York.

Il terzo punto del programma di Stampa Democratica partiva quattro anni fa dall’articolo 18 per andare ad abbracciare in senso più ampio il problema delle tutele: “L’articolo 18 va difeso. Non ci convince il teorema che licenziando si creano più posti di lavoro. Ma non si possono certo dimenticare coloro che non hanno tutele. Occorrono interventi legislativi di giustizia sociale e il sindacato deve sollecitare la classe politica a intervenire concretamente”. Anche a questo proposito la sensazione è che non siano stati fatti molti progressi.

Mi permetto di aggiungere una considerazione personale poiché mi sono trovato, dopo 25 anni di attività, a dover contrastare la trappola tesa da un grande editore, che con un impegno scritto mi garantiva il rientro in azienda dopo essere stato trasferito in affitto a una società gestita al 50 per cento dalla stessa impresa in caso di chiusura o fallimento. Quando questa evenienza si è puntualmente verificata ho scoperto che chi sostiene che Vincent Bolloré possa essere paragonato ad Attila e pretende “un risarcimento adeguato per il danno enorme causato dal clamoroso voltafaccia su un accordo vincolante” è la prima ad agire nello stesso modo.

Pensavo fosse semplice veder riconosciuti i miei diritti, ma mi sbagliavo perché non sono stati fatti nemmeno i passi che prevedono che “in caso di cessazione di attività di una testata, l’editore ed il comitato di redazione, assistiti dalla FIEG e dalla FNSI, si incontreranno al fine di verificare la possibilità di riassorbimento dei giornalisti e dei praticanti in altre testate della stessa azienda o dello stesso gruppo editoriale o di testate di società controllate”. L’unico conforto ricevuto è stato questo: “Comunque ricorda che, male che vada, ti sarà riconosciuta l’indennità di mancato preavviso…

Detto questo, mi sento autorizzato a fare il possibile perché la squadra che non vince sia sciolta, e tra le varie organizzazioni sindacali schierate per le prossime elezioni quella di Senza Bavaglio sia quella meno disposta a cedere ai compromessi e a tacere davanti ai soprusi che ormai hanno raggiunto livelli intollerabili.

Valerio Boni
Candidato nelle liste di Senza Bavaglio

 

 

 

 

 

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