I gessetti di Sylos Labini
Giovanni La Torre
Roma, 11 luglio 2017
Nel dibattito economico di questi giorni tiene banco l’idea di Renzi di conseguire un deficit di bilancio pari al 2,9% per diversi anni, in contrasto con il fiscal compact (il “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance” dell’Unione Europea firmato da 25 Paesi il 2 marzo 2012, che prevede una serie di norme comuni e vincoli per contenere il debito pubblico nazionale; in pratica il principio di austerità – N. d. R.), in modo da poter ridurre le tasse e rilanciare l’economia italiana.
A riguardo di questa proposta vanno fatte due considerazioni. La prima attiene al fatto che sia la teoria che la prassi hanno dimostrato che un aumento sensibile del deficit fatto attraverso la riduzione delle tasse ha un impatto sul Pil inferiore a quello che si avrebbe attraverso un aumento della spesa pubblica, soprattutto quella per gli investimenti. E la motivazione è abbastanza semplice: le minori tasse non si traducono tutte in aumento di domanda, perché buona parte sarebbe risparmiata, mentre l’investimento pubblico si trasforma tutto in domanda per le imprese, che così possono assumere, investire a loro volta e crescere.
I paladini della diminuzione delle tasse a tutti i costi, fanno spesso riferimento alla politica economica di Ronald Reagan, che realizzò una riduzione sensibile della pressione fiscale, specie a favore dei ricchi, che sarebbe andata a beneficio della crescita. Costoro sono in mala fede, perché a determinare la crescita durante la seconda parte della presidenza Reagan (perché la prima fu alquanto magra) fu il forte aumento della spesa pubblica per gli armamenti, la quale portò il deficit di bilancio Usa a livelli mai riscontrati prima. Dal 1980 al 1986 esso passò da 60 mld di dollari a 220 mld (circa 6% del Pil) annui, portando il debito pubblico Usa da 750 mld a 1.750 mld di dollari. Reagan cioè adottò di fatto una politica keynesiana di deficit spending, in barba a tutti i proclami ideologici contrari.
L’altra considerazione che la proposta di Renzi suggerisce riguarda l’impatto reale che una politica espansiva ha in un’economia aperta, quando c’è un paese che fa da spugna principale nell’assorbire la domanda. Ci riferiamo evidentemente alla Germania, che ogni anno registra ormai un surplus nelle partite correnti verso l’estero di circa 270 mld di euro (oltre 300 mld di dollari), pari a circa il 9% del Pil, mentre i trattati europei imporrebbero di non superare il 6%.
In questa situazione è molto probabile, anzi quasi certo, che l’aumento della domanda generata in un paese dell’Ue, ma non solo, si trasformi in buona parte in domanda per le imprese tedesche. Perché, vedete, la furbizia (e ipocrisia) della politica economica tedesca sta nel fatto di praticare all’interno una politica antikeynesiana, e di poterlo fare perché la politica contraria la fanno gli altri paesi, i quali con il loro indebitamento alimentano le esportazioni e la crescita tedesche. Cioè gli altri paesi si indebitano e la Germania cresce grazie a questo indebitamento; allo stesso tempo i tedeschi possono esibire ipocritamente i “benefici” della loro austerità interna. Se tutti i paesi del mondo fossero realmente austeri, il primo paese a pagarne le conseguenze sarebbe proprio la Germania.
Essendo questa la situazione, e considerata la minaccia protezionistica di Trump, è molto probabile che alla fine Angela Merkel possa acconsentire alla richiesta renziana, in tutto o in parte, perché sarebbe comunque un ulteriore stimolo alle esportazioni tedesche in un momento in cui queste potrebbero ridursi verso gli Usa, e anche perché oggi il problema numero uno per la Germania, come abbiamo detto altre volte di recente, è quello della difesa comune, e quindi è importante avere dalla propria parte l’Italia.
L’Italia però dovrebbe cercare di sottrarsi a questo gioco e, considerato che non può chiudersi nell’autarchia, ha una sola strada per farlo: pretendere l’applicazione della norma del trattato che impone di ridurre il surplus delle partite correnti al 6% del Pil. Solo così ha buone probabilità che politiche espansive vadano a proprio beneficio, altrimenti continueremo solo a registrare gli effetti negativi, cioè aumento del deficit e del debito, mentre quelli positivi andrebbero “altrove”.
Giovanni La Torre
giovlatorre@gmail.com
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