Il World Economic Forum ha pubblicato nei giorni scorsi il primo report sulla “crescita inclusiva”. Lo studio esamina la situazione di 112 paesi divisi in più gruppi: quello dei paesi sviluppati in numero di trenta e gli altri per un totale di 82. Ovviamente l’Italia è compresa nel primo gruppo, ma compete con la Grecia per “assicurarsi” l’ultimo posto, con insufficienze in tutti i campi (non se ne salva neanche uno di quelli considerati).
Scendendo nei particolari della nostra performance si capiscono i motivi di quella posizione vergognosa. Vediamone alcuni:
– Crescita annua del Pil pro capite nel periodo 2005-14: 29° posto essendo stato pari a – 0,76 (in dieci anni siamo andati indietro e non avanti)
– Produttività del lavoro, variazione annua nel periodo 2003-12: 30° posto (quindi peggio della Grecia) con un tasso annuo di – 0,46 (cioè la produttività è diminuita anziché aumentare)
– Incidenza dei redditi da lavoro sul reddito nazionale (2010): 28° posto con il 42,3%
– Disuguaglianza (indice Gini): 19° posto se consideriamo i redditi lordi, 22° se li consideriamo dopo le tasse (segno di scarsa progressività) e i trasferimenti compensativi, 21° come livello di povertà
– Debito pubblico: 28° posto
– Istruzione: 26° posto (scomposto nel 28° come qualità, 18° come facilità di accesso e 21° come equità)
– Lavoro: 25° posto (scomposto in un 29° posto come partecipazione della popolazione alla produzione e un 9° posto come livelli retributivi e compensativi)
– Imprenditorialità (inteso come contesto che la favorisce): 29° posto
– Intermediazione finanziaria per l’economia reale: 30° posto
– Etica pubblica e negli affari (corruzione): 30° posto
– Infrastrutture digitali e di base: 30° posto
– Contributo del sistema fiscale (entrate e uscite) all’equità: 26° posto (scomposto nel 22° posto come legislazione tributaria e 29° posto come protezione sociale).
Nella scheda conclusiva relativa all’Italia, viene sottolineato che l’handicap principale per il nostro paese è la corruzione e la scarsa etica pubblica. Questo è quello che il mondo pensa di noi e che emerge sistematicamente in tutti gli studi internazionali, ma nessuno se ne preoccupa, si preferisce parlare d’altro e così sprofondiamo sempre più giù. L’altro fattore altamente critico, ed anche questo emerge in tutti gli studi sull’argomento, è il crollo della produttività. Ma anche di questo non gliene frega niente a nessuno, a cominciare dal nostro governo.
Infatti il governo Renzi pensa a tutt’altro, pensa per esempio a mortificare ancora di più il lavoro rendendolo più precario (i cosiddetti contratti a tempo indeterminato sono un bluff essendo prevista la libertà di licenziare in qualsiasi momento), o a ridurre le tasse sulla casa. Un governo serio invece dovrebbe concentrare tutti gli sforzi sulla lotta vera alla corruzione, e le poche risorse finanziarie sull’istruzione e la ricerca, anche attraverso gli incentivi alle imprese.
Girando su internet alla ricerca di qualche commento, sono stato indirizzato sul sito del Pd dove effettivamente era stato riportato il report. Leggendo il relativo commento si nota che “labor productivity” è stato tradotto “produttività dei lavoratori”, anziché “produttività del lavoro”. Questo lapsus la dice lunga sulla squadra renziana e spiega perché si siano accaniti sul jobs act. Loro sono convinti che siano i lavoratori a essere dei lavativi e non le imprese a non investire in tecnologie e innovazione per farli rendere di più, che è l’interpretazione giusta di quel dato.
Poverini! Per esempio non sanno che i lavoratori italiani sono quelli che lavorano di più, infatti dalle rilevazione dell’Ocse risulta che in Italia i lavoratori lavorano più ore di quelli tedeschi, francesi e, perfino, statunitensi. Non solo, la stessa Ocse, già prima del Jobs Act, certificava che in Italia l’indice Epl (Employement Protection Legislation) era più basso di quello di Francia e Germania, cioè in Italia i lavoratori erano già meno protetti rispetto a quelli dei nostri principali concorrenti. Figuriamoci dopo l’abolizione dell’art. 18, come verrà considerato il nostro paese. Il problema, come abbiamo già detto, è che vengono utilizzati male dalla maggior parte delle imprese per scarsa innovazione. Per molte imprese italiane il benchmark non è la Germania, ma la Cina, e Renzi asseconda queste imprese, non quelle innovative, e in questo modo assicura la conservazione e l’immobilismo, e dà una bella spinta verso l’ulteriore declino.
Con la benedizione dei vari Panebianco.
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