L’inarrestabile pendolo di un paese senza meta

Da troppo tempo il nostro paese vive alla giornata. Ogni provvedimento viene preso sulla base della pressione del momento, peraltro così come viene percepita dal governante di turno, senza un quadro di riferimento complessivo che indichi la meta di lungo periodo. Uno dei casi più eclatanti è stata la messe di normative sul lavoro dalla legge Treu in poi. La precarietà che ne è risultata poteva anche avere un senso se fosse stata inserita in un quadro complessivo nel quale sarebbe servita alle imprese per ristrutturare, riconvertire e competere meglio nell’economia globale, come è avvenuto per esempio in Germania.

Invece è stata utilizzata dalle imprese meno efficienti per resistere in settori obsoleti, appannaggio ormai dei paesi emergenti. Per queste imprese lo svilimento e la precarizzazione del lavoro è diventata una specie di droga che deve essere somministrata in dosi sempre maggiori per essere efficace, ma che risulterà sempre insufficiente.

Così quelle norme, come ha osservato acutamente il prof. Travaglini in un suo recente libro, hanno realizzato un’evidente e macroscopica “eterogenesi dei fini”, perché dovevano garantire maggiore competitività e invece hanno determinato un peggioramento della stessa, disincentivando gli investimenti in innovazione e facendo crollare la produttività. Da qui deriva la spinta di molti a farci uscire dall’euro: il cambio fisso non è sopportabile per molte imprese.

Chi chiede l’uscita dall’euro dimentica però che sono state proprio le continue svalutazioni ad aver disabituato molte imprese alla competizione sull’efficienza e la qualità, e trascura altresì che nell’economia globalizzata anche le svalutazioni risultano a un certo punto insufficienti e dannose per le incertezze che provocano nei rapporti internazionali e per i processi inflazionistici che innescano.

Ma volevo parlare anche di un’altra caratteristica della politica italiana, della sua improvvisazione: l’oscillare con indifferenza da una visione a quella opposta. Quante volte si è indicata la spesa pensionistica come quella più bisognosa di riduzione. Si è invocato e realizzato l’aumento dell’età pensionabile, eppure quante volte subito dopo si chiedeva di prepensionare intere categorie di dipendenti, da ultimo la ministra Madia per gli impiegati pubblici.

E’ di questi giorni un caso ancora più clamoroso, se possibile: il pagamento anticipato del Tfr. Anche in questo caso si contraddice palesemente quanto invocato, auspicato e favorito qualche anno fa. Si è cercato di convincere in tutti i modi di versare il Tfr nei fondi pensione, visto che nei prossimi anni l’assegno pensionistico sarà drasticamente ridotto per la maggior parte dei lavoratori, ebbene ora che si fa? Si dice ai lavoratori “fatevi dare subito il Tfr e spendetelo, non pensate al futuro”.

Poi fra qualche anno, quando molti lavoratori andranno in pensione e rischieranno di fare i clochard, ci sarà qualche politico, se mai ben rimpinzato di tangenti, che dirà “perché non avete pensato al futuro quando lavoravate?”.

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