Un’altra spinta verso il decino

Il testo del decreto legge che è uscito dal Senato precarizza ancora di più il nostro mercato del lavoro, non solo perché consente cinque rinnovi per tre anni dei contratti a tempo determinato, ma anche perché banalizza la sanzione per chi non rispetta i vincoli della legge: non più l’obbligo di assunzione ma una semplice sanzione pecuniaria, praticamente la minaccia fa un baffo alle imprese.

Si dice da parte dei difensori del provvedimento che lo stesso è necessario per incentivare le assunzioni, che è meglio un lavoro precario che niente, e altre cose di questo genere. Non perdo tempo a discutere queste affermazioni perché già diverse volte ho detto cosa serve realmente per incrementare seriamente l’occupazione, voglio solo dire che studi seri, per intenderci quelli di cui non si parla mai nei media, attestano ormai da diversi anni che la causa prima del declino italiano è il crollo della produttività che è cominciato da almeno un quarto di secolo. E in questo crollo la precarizzazione del mercato del lavoro ha avuto una sua parte in quanto ha disincentivato gli investimenti in innovazione e in tecnologia. Le leggi Treu e Biagi potevano anche avere una loro funzione se le imprese ne avessero approfittato per rendere più agevole e meno onerosa la riconversione e investire in ricerca nei settori tecnologicamente avanzati, ma questo non è avvenuto; è avvenuto invece che le imprese (non tutte, ovviamente) hanno sfruttato la riduzione del costo del lavoro che ne è derivato per resistere in nicchie di mercato ormai obsolete, esposte alla concorrenza dei paesi emergenti, e per aumentare il tasso di profitto.

Per chi scrive l’occasione è buona per fare il punto su uno dei tanti luoghi comuni che circolano nel dibattito economico e politico italiano, e che viene tirato in ballo per far approvare i provvedimenti di cui si tratta: la presunta rigidità del nostro mercato del lavoro. L’Ocse elabora da diversi anni un indice, Employment Protection Legislation (Epl), che misura proprio il livello di protezione dei lavoratori dai licenziamenti nei diversi paesi. Il valore può andare da zero (nessuna protezione) a sei (massima protezione). Ebbene nel 2013 detto valore per i contratti a tempo indeterminato era di 2,79 per l’Italia, 2,82 per la Francia e ben 2,98 per la Germania. Quindi oggi il mercato del lavoro è più rigido in Germania e in Francia che non in Italia. Quando periodicamente si parla del famoso art. 18 si dovrebbe tener conto di questo dato, soprattutto perché l’indice sintetico è determinato soprattutto dalla sua componente “licenziamenti individuali”, che è il campo in cui opera l’art. 18, il quale registra i seguenti valori: 2,41 per l’Italia, 2,60 per la Francia e 2,72 per la Germania, dove si nota che il differenziale è maggiore. Il mercato italiano è invece meno flessibile nel comparto dei “licenziamenti collettivi” i cui valori sono: 3,75 per l’Italia, 3,38 per la Francia e 3,63 per la Germania. Il dato sintetico è poi la media ponderata dei due sotto indici. Passando ai contratti a tempo determinato gli indici determinati dall’Ocse sono: 2,71 per l’Italia, 3,75 per la Francia e 1,75 per la Germania. In quest’ultimo comparto si notano le differenze maggiori nel senso di una minore protezione rispetto alla Francia e di una maggiore protezione rispetto alla Germania. Però va subito detto (questi sono dati Eurostat) che mentre in Italia solo il 40% dei lavoratori sceglie volontariamente il tempo determinato, il resto essendo invece “costretto”, in Francia è il 70% e in Germania addirittura è circa l’85%. Appare quindi evidente che la minore protezione che questa forma di contratto trova in Germania è dovuta proprio al fatto che la circostanza risulta del tutto indifferente ai lavoratori interessati essendo la loro una scelta consapevole.

Dai predetti dati risulta con tutta evidenza che ormai, dopo le cosiddette leggi Treu (1997) e Biagi (2003), la presunta diversità italiana in termini di scarsa flessibilità del mercato del lavoro è solo una giaculatoria che non corrisponde più alla realtà, e che viene recitata per far passare norme e prassi che consentano la sopravvivenza a imprese inefficienti destinate, nonostante tutto, prima o poi a soccombere comunque, perché non potranno mai battere sul punto la concorrenza dei paesi emergenti. Sarebbe infinitamente meglio concentrare il dibattito di politica economica e le poche risorse disponibili sulle modalità per far riprendere la produttività nei settori avanzati, nei quali il nostro paese dovrebbe competere. Se l’attuale testo del dl verrà confermato anche alla Camera, molto probabilmente assisteremo a un ulteriore abbassamento dell’indice nei prossimi anni.

Ma questo provvedimento solleva anche una questione squisitamente politica: l’ambiguità di Renzi. Perché il nostro capo del governo da un lato si è presentato con il suo Jobs Act per preannunciare l’istituzione del contratto a “tutele progressive”, istituto che incontra ampie condivisioni tra gli esperti, ma poi di questo ne ha fatto un mero disegno di legge, mentre ha promosso un decreto legge che va nella direzione esattamente opposta. La circostanza non può non far sorgere qualche dubbio in merito alle caratteristiche di serietà del soggetto. Speriamo di sbagliarci.

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