Nella retorica della nostra classe dirigente inetta e corrotta, viene spesso detto che in Italia non si investe (e non investono dall’estero) perché il costo del lavoro è troppo alto. Periodicamente si riapre il dibattito sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, diventato ormai una sorta di capro espiatorio di ogni inefficienza e di ogni cattiva coscienza della predetta classe dirigente. Ebbene l’Eurostat (l’ufficio statistico dell’Ue) ha appena pubblicato i dati sul costo del lavoro nell’Ue e nell’eurozona. I numeri emersi sono tali che coloro che hanno sempre recitato quella giaculatoria dovrebbero ora quanto meno ricredersi, per non dire altro. Cosa dicono quei dati? Ecco:
1) il costo orario del lavoro in Italia nel 2013 è stato di euro 28,1 contro una media dell’eurozona di 28,4. In Francia il costo orario è stato di 34,3 e in Germania di 31,3 e lasciamo stare, per carità di patria, i paesi nordici;
2) il costo del lavoro in Italia è stato inferiore alla media dell’eurozona per tutto il periodo 2008 – 13;
3) il settore che abbassa la media in Italia è quello dell’industria (28,0 contro 31,0), perché invece quello dei servizi è in linea, anzi lievemente maggiore (28,2 contro 28,0), e quello delle costruzioni è sensibilmente superiore (26,5 contro 24,5). In Francia e Germania il costo orario nell’industria è di 36,8 e 36,5;
4) pertanto la Confindustria, che è quella che si lamenta di più e invoca continuamente aiuti, è quella che dovrebbe parlare di meno;
5) superiore invece alla media dell’eurozona è l’incidenza sul costo totale del lavoro degli oneri sociali, precisamente 28,1% contro 25,9%.
Spero che dopo la pubblicazione di questi dati il dibattito sulla crescita, o sul declino, del nostro paese imbocchi finalmente un’altra strada, più vera. Il problema vero è che anche un costo del lavoro inferiore a quello dei concorrenti mette paura ai nostri imprenditori, e questo perché la produttività del lavoro ormai da almeno venti anni non cresce come negli altri paesi, e nel 2012 è addirittura calata (-1,2%). Se aggiungiamo che altri dati pubblicati l’anno scorso hanno mostrato che i lavoratori dipendenti italiani lavorano in media di più dei loro principali concorrenti dell’eurozona, la conclusione è una e una sola: le imprese italiane, in media, investono poco in innovazione. Questa tendenza induce le stesse imprese a rifugiarsi in settori dove l’innovazione non è strategica, e dove la competizione si svolge solo sul prezzo, ma in questi settori diventa più forte la concorrenza dei paesi emergenti i quali mostrano costi del lavoro senz’altro notevolmente inferiori. Da qui il circolo vizioso che si è instaurato nel nostro paese che induce le imprese meno concorrenziali a chiedere sempre più aiuti statali e interventi mirati a ridurre il costo del lavoro. Ma questa spirale se non viene spezzata ci porterà sempre più nel baratro, perché non potremo mai competere sul costo del lavoro con i paesi emergenti, a meno di reintrodurre lo schiavismo.
Nei giorni scorsi il governatore Visco ha ripreso un concetto che noi avevamo esposto nel gessetto del 10 marzo, e cioè che gli imprenditori devono mettere mano ai loro patrimoni personali per ricapitalizzare le loro imprese e investire di più in innovazione, perché è vano chiedere al sistema bancario fiducia e denaro se poi loro stessi non hanno fiducia nelle loro imprese, al punto da evitare di rischiare i loro soldi.
Certamente, poi, il calo della produttività del lavoro è figlio anche del calo della “produttività totale dei fattori”, molto pronunciato nel nostro paese. E qui dovremmo riprendere il discorso sulla corruzione che abbiamo già fatto tante volte.
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