I “nemici” che piacciono alla fianza. Uno

A volte mi chiedo come sia possibile che nonostante i ripetuti attacchi alla “finanza” e alle “banche”, sia cambiato ben poco nella regolamentazione del loro settore dallo scoppio della crisi fino a oggi. I “bankster” continuano a imperversare e a incassare bonus su bonus con operazioni speculative ad alto rischio e con truffe vere e proprie (vedi lo scandalo della manipolazione dei cambi che sta emergendo negli Usa). Poi mi capita di sfogliare qualche libro di quelli che fanno fuoco e fiamme contro la finanza e le banche e capisco il  perché: costoro troppo spesso diventano delle mere “tigri di carta” per il fatto che molte volte propongono soluzioni di cui non danno l’impressione di aver valutato appieno le conseguenza, indicano obiettivi sbagliati, e quindi di essi la finanza non se ne cura molto, diventano dei “nemici” facili da sconfiggere. E questo è un vero peccato.

Per esempio una delle cose che certi critici dicono spesso (lo diceva anche la tigre di carta per antonomasia: Tremonti) è che le banche andavano e vanno lasciate fallire e lo stato non deve intervenire “con i soldi dei contribuenti (o dei cittadini)”. A parte la considerazione che laddove lo stato è intervenuto lo ha fatto non con contributi a fondo perduto ma con finanziamenti a tassi salati che possono anche trasformarsi in capitale se non vengono rimborsati, ma quello che manca in quelle analisi è l’indicazione di come andrebbero affrontate le conseguenze del fallimento. Per esempio come verrebbero rimborsati i depositi e le obbligazioni sottoscritte dai risparmiatori? Questi autori sembra che diano implicitamente per scontato che detti depositi e obbligazioni siano garantiti da qualche entità pubblica o associativa (come l’italiano “fondo interbancario di tutela dei depositi”), ma la cosa sarebbe vera solo se un default bancario restasse un caso isolato, e una volta tanto, altrimenti nessuna copertura sarebbe sufficiente, e poi comunque il costo dell’operazione sarebbe di gran lunga superiore a quello eventualmente sostenuto per il salvataggio. Ma la questione che soprattutto non affrontano è quella relativa alla parte attiva del bilancio di una banca: i finanziamenti concessi alle imprese e ai privati. Una volta avviata la procedura fallimentare (che per le banche e le finanziarie “vigilate” si chiama “liquidazione coatta amministrativa”) il curatore fallimentare (che in questo caso si chiama “commissario liquidatore”) deve liquidare in fretta l’attivo, e questo vuol dire che tutte le forme di finanziamento a breve, “a revoca” (ma la cosa riguarda anche i finanziamenti a medio lungo termine per i quali è possibile il recesso unilaterale), vengono subito revocate e le imprese e i privati devono immediatamente rientrare. L’avvio di un simile processo provocherebbe un terremoto nell’economia reale e potrebbe determinare dei fallimenti a catena anche lì, o comunque metterebbe in difficoltà finanziare i soggetti che devono rientrare. Questi sono i motivi principali per cui il fallimento di una banca è sempre una misura estrema che deve essere portata avanti quando proprio non ci sono alternative. Ma le analisi di certi “nemici” della finanza mostrano anche altri limiti concettuali di cui parleremo la prossima volta.

8/2/14

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