Qualcosa non torna nella vicenda Rcs Mediagroup. E non solo sotto il profilo societario, con la ricapitalizzazione votata, ma ancora incerta nella realizzazione; un piano industriale approvato, ma contestato da alcuni soci di peso e già sottoposto a revisione; le dismissioni deliberate (Dada e gli immobili), ma rinviate a data da destinarsi. Qualcosa non torna anche sul piano sindacale.
Chiusi gli accordi di Corriere e Gazzetta, si avvicina lo showdown anche per i Periodici. Il 10 giugno si è aperto il tavolo nazionale e l’azienda ha confermato che, falliti i tentativi di vendita in blocco delle 10 testate definite “no core”, intende procedere alla cessione di singole riviste o pacchetti e alla chiusura delle restanti, con cassa integrazione a zero ore per i giornalisti che vi lavorano.
In gioco c’è il futuro di un centinaio di colleghi, che non sanno quale dei due destini augurarsi.
Trincerato dietro l’alibi della crisi dell’editoria, il primo gruppo editoriale italiano sta avviando una vera e propria operazione di rottamazione di giornali e giornalisti che ha solo lambito (per ora) i colleghi di Corriere e Gazzetta e promette di abbattersi pesantemente sulla divisione Periodici.
Come definire la messa in vendita di 10 testate, nel momento peggiore per il settore editoriale dal dopoguerra, se non una demolizione per procura? Non per niente, nell’elenco degli (im)probabili acquirenti che in questi mesi si sono fatti avanti compaiono editori di chiara fama e provate capacità: dallo stampatore Mastagni, a processo per bancarotta fraudolenta, al concessionario di pubblicità Bernardini de Pace, che per rilevare le testate avrebbe chiesto una dote di 30 milioni di euro, a Daniela Santanchè, assistita nell’affare dall’ex compagno Canio Mazzaro, finanziere interessato, si mormora, più agli immobili che ai giornali.
Di più. Come spiegare se non con un’operazione di rottamazione l’inserimento nel pacchetto delle riviste da cedere di tutti o quasi i marchi storici del gruppo? Comprese testate con i conti in sostanziale equilibrio, ma portatrici di un imperdonabile – agli occhi del management – handicap: impiegare giornalisti contrattualizzati e con un’anzianità aziendale medio/alta.
E qui sta uno dei tanti paradossi di tutta la vicenda: nell’azienda che intende disfarsi di un centinaio di giornalisti lavorano oltre 50 “abusivi”. Fuori i contrattualizzati e dentro i precari, dunque, meno costosi e più ricattabili. Con la scusa della crisi, il vero obiettivo di Rcs è affermare un nuovo modello organizzativo.
La domanda, allora, sorge spontanea: è un modello su cui anche la Fnsi è disposta a convergere, visto che è mancata finora qualunque denuncia al riguardo? Ma visto anche che la piattaforma per la rinnovazione contrattuale conterrebbe la proposta di una “formula” tesa a “legalizzare” il lavoro precario, mettendo così al riparo gli editori dalle cause di lavoro e nell’angolo i giornalisti contrattualizzati. L’uso del condizionale è d’obbligo, dal momento che la piattaforma è top secret, più dei file del Pentagono. (E, su questo tema: dobbiamo considerarlo un comportamento normale? nessuno ha nulla da dire? E’ accettabile che i giornalisti non conoscano con quali richieste il loro sindacato si presenti al tavolo per il rinnovo del contratto?)
Tornando a Rcs, l’intera vicenda si sta consumando nell’assordante silenzio di tutto il sindacato. Dire che il Comitato di redazione dei Periodici abbia tenuto un comportamento cauto è un eufemismo. Sopire e sedare è stata la parola d’ordine di questi mesi persi in incontri inconcludenti con l’azienda.
Quanto alla Fnsi, nei quattro mesi da che ha avuto inizio la vicenda si contano solo due interventi. Il primo in febbraio, quando, dopo aver riunito al Circolo della Stampa le rappresentanze di Corriere, Gazzetta e Periodici, la Fnsi ha emesso un comunicato nel quale, oltre a respingere le cessioni e qualsiasi ipotesi di cassa integrazione a zero ore, annunciava solennemente che su Rcs ci sarebbe stato un solo tavolo di trattativa. Peccato che, a una settimana di distanza, il Cdr del Corriere sedesse in solitudine al tavolo con l’azienda (e poco dopo quello della Gazzetta facesse altrettanto). Dalla Federazione nemmeno un plissé. Evidentemente quel giorno era troppo occupata a redigere il comunicato di saluto dai toni encomiastici all’ad di Mondadori Maurizio Costa che lasciava l’azienda.
Così i giornalisti dei Periodici sono lasciati soli ad affrontare un piano devastante, che taglia 100 posti di lavoro su 250. Ovvio che misure tanto drastiche non si spiegano con la crisi dell’editoria, che pure c’è, ma che potrebbe essere affrontata con strumenti più soft come stanno facendo altri gruppi editoriali di pari peso.
Invece Rcs deve fare i conti con un indebitamento monstre di oltre 900 milioni di euro, eredità dell’acquisizione, nel 2007, dell’azienda spagnola Recoletos. Operazione discutibile sotto molti punti di vista, della quale i giornalisti del Corriere hanno offerto una ricostruzione talmente avvincente che ci si rammarica che abbiano deciso di interromperla dopo solo tre puntate (e dopo l’apertura del negoziato).
E sempre a causa dell’avventura spagnola, all’indebitamento si sono sommate negli ultimi due anni svalutazioni che hanno minato nel profondo la solidità finanziaria della società.
Ora Rcs intende correre ai ripari. Per senso di responsabilità, i soci dovrebbero ripianare i debiti da loro creati mettendo mano al portafogli e ricapitalizzando adeguatamente la società. Ma nell’Italia del capitalismo straccione le colpe degli azionisti vengono scaricate sui dipendenti, attraverso i cosiddetti piani di riorganizzazione. E’ quello che sta facendo Rcs, senza neppure curarsi di ripartire i costi equamente.
L’accordo firmato al Corriere, infatti, è un piccolo capolavoro. Ci sarebbe da complimentarsi con il Comitato di Redazione che l’ha trattato se non fosse che, pur di non rinunciare ad alcuno dei benefit di cui godono, i giornalisti del Corriere stanno lasciando, consapevolmente o meno, che a pagare per tutti siano i colleghi dei Periodici. Che cosa hanno lasciato sul tavolo della trattativa? 70 uscite fra pensionamenti e prepensionamenti in 4 anni, tutti rigorosamente volontari (e pertanto, incerti); sospensione degli stage all’estero dei redattori per due anni (sui 4 che dovrebbe durare lo stato di crisi); smaltimento delle ferie arretrate oltre i 200 giorni. Contestualmente, hanno ottenuto la stabilizzazione di 24 precari (contratti a termine o cococo: non sia mai che a qualcuno venisse in mente, invece, di ricollocare nelle storiche stanze di via Solferino i colleghi dei periodici che stanno perdendo il lavoro!). Morale, la riduzione (peraltro teorica) di organico sarà di 46 unità. Chapeau!
Disponibile oltre ogni previsione al negoziato con il Cdr del Corriere – al quale inizialmente voleva imporre un taglio di organico di 110 unità e l’abolizione di tutti i benefit – Rcs si mostra inflessibile nei confronti dei Periodici. In questi quattro mesi, l’azienda ha rifiutato ogni confronto con le rappresentanze sindacali, respingendo senza neppure analizzarlo il piano di riorganizzazione elaborato dal sindacato – unica iniziativa degna di nota assunta da Cdr e Fnsi – , che prevedeva di gestire gli esuberi con strumenti alternativi sia alle cessioni che alla cassa integrazione a zero ore.
Di fronte a un quadro tanto drammatico e torbido, sconcerta la cappa di omertà che, da ogni parte, avvolge la vertenza. Su Rcs, che nelle parole del segretario nazionale della Fnsi pronunciate a Milano avrebbe dovuto diventare un caso nazionale, per il peso del Gruppo e per la portata della ristrutturazione annunciata, è calato il silenzio.
Dopo il comunicato iniziale, subito smentito nei fatti, non c’è più stata nessuna presa di posizione, avvertimento, denuncia da parte della FNSI. Niente, insomma, di quelle tattiche che fanno parte della prassi sindacale. Quasi non si volesse disturbare il manovratore, nell’attesa di essere messi di fronte al fatto compiuto.
Un comportamento, quel sindacato, tanto più sconcertante quando si pensi che uno dei segretari aggiunti, con delega su Rcs, è una dipendente dei Periodici (la cui testata, peraltro, è sfuggita, sorprendentemente, alla mannaia di Jovane, a dispetto del conto economico da brividi e nonostante non rientri in nessuna delle aree che il piano industriale definisce “core”: arredamento, femminile, lifestyle, infanzia. Per inciso: il conflitto di interesse non esiste solo per B. e per le banche. A quando una norma che stabilisca il divieto, per chi ricopre incarichi nazionali di occuparsi delle vertenze della propria azienda di provenienza, così da fugare anche il più piccolo sospetto di condiscendenza?)
A questa vera e propria congiura del silenzio hanno partecipato anche i colleghi degli altri gruppi editoriali, chiamati in questi mesi a coprire le vicende Rcs. Pronti a versare fiumi d’inchiostro per registrare ogni minimo sospiro di questo o quel socio, hanno lasciato completamente in ombra la vertenza sindacale. Surreale, per non dir peggio, quanto avvenuto in occasione dell’assemblea degli azionisti Rcs che ha deliberato l’aumento di capitale. Nonostante la nutrita presenza di giornalisti economici, cameraman e fotografi, nei servizi televisivi e nei pezzi pubblicati il giorno dopo non si trovava neppure un accenno al presidio organizzato dai giornalisti dei Periodici fuori dalla sede della riunione.
Da qualunque lato la si guardi – finanziario, industriale, sidacale – in questa storia i conti non tornano.
L’editoria è in crisi, tutti i grandi gruppi stanno ristrutturando, ma in tutti i casi, da Gruner und Jahr a Mondadori, a Class, si sono scelte vie morbide. Solo per i Periodici Rcs ci si appresta a lasciare sul campo morti e feriti. E non basta a giustificarlo il richiamo all’enorme debito.
Al Corriere hanno detto “non lo abbiamo fatto noi e non intendiamo pagarlo”. Giusto, ma neppure i giornalisti dei periodici hanno responsabilità per il debito e le svalutazioni. Qualcuno dovrà spiegare perché il conto lo si voglia presentare a loro. E perché la Fnsi non sembra far nulla per impedirlo.
Senza Bavaglio
www.senzabavaglio.info
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