Condannata anche in appello la boss che aggredì Maria Grazia Mazzola del Tg1

“Ha vinto il giornalismo libero contro tutte le mafie”, commenta la cronista, che fu colpita con un pugno e minacciata di morte nel 2018 durante un’inchiesta. Ma le intimidazioni ai giornalisti, purtroppo, non sono una rarità

Speciale Per Senza Bavaglio
Andrea Di Quarto
Milano, 14 maggio 2024

“Grazie a tutte le parti civili, all’avvocata Caterina Malavenda, a Enza Randa, al sindaco Decaro, all’Ordine dei giornalisti, a tutte e a tutti per il fortissimo impegno. Grazie inoltre a Stampa Romana, che fin dall’inizio ha sostenuto la mia causa per la verità contro la boss Laera, e grazie a tutti quei colleghi e colleghe che hanno creduto alla vera dinamica dei fatti e cioè all’aggravante mafiosa, perché ci sono stati alcuni invece che hanno dato man forte alla versione della mafiosa che si riteneva vittima del “disturbo” che io le avevo dato, ponendo delle domande nel quartiere controllato dal clan Strisciuglio. La conferma in Appello della condanna a 16 mesi di reclusione per la boss Monica Laera attesta che ha vinto il giornalismo libero contro tutte le mafie”.

 

Maria Grazia Mazzola, inviato speciale del Tg1, era comprensibilmente soddisfatta, ieri, al termine dell’udienza del Tribunale di Bari che ha confermato anche in appello la condanna a un anno e quattro mesi di reclusione, con l’aggravante della modalità mafiosa, a Monica Laera, boss del clan Strisciuglio che sei anni l’aveva aggredita in strada durante le interviste che la cronista stava svolgendo nel quartiere Libertà di Bari per uno speciale dedicato ai giovani e alle mafie.

Maria Grazie Mazzola

Non si tratta di una vicenda banale, la “solita” intimidazione al cronista di turno. La donna condannata, Monica Laera è una boss, a pieno titolo del clan Caldarola-Mercante, emanazione diretta dello storico clan Strisciuglio. Condannata in via definitiva per associazione mafiosa e soggetto socialmente pericoloso secondo i giudici della Cassazione, Laera è la moglie del boss barese Lorenzo Caldarola, “re” del quartiere Libertà, condannato in via definitiva per associazione mafiosa e attualmente detenuto al regime del 41 bis, oltre che destinatario di numerose ordinanze di custodia cautelare in carcere (operazioni Sant’Anna, Black & White, Lithos, Eclissi, Break Down2 e Coraggio). Come hanno sancito diversi procedimenti penali, con sentenze passate in giudicato, l’uomo è ritenuto il leader incontrastato del clan Strisciuglio nei quartieri Libertà e San Pio, a capo di una ramificata attività di spaccio, diretta anche dal carcere attraverso i propri familiari oppure utilizzando telefoni cellulari clandestinamente introdotti in cella.

Anche il figlio maggiore, della donna Francesco, è in carcere, condannato in via definitiva per omicidio. L’uomo, tra l’altro, è il genero di Giuseppe Mercante, boss dell’omonimo clan, arrestato per mafia due mesi dopo l’aggressione alla Mazzola, mentre la suocera (la moglie di Giuseppe Mercante) è quella Angela Ladisa che insieme a Monica Laera era presente sul luogo dell’aggressione a Mazzola. Nello stesso procedimento, è accusata di aver aggredito verbalmente, offendendone l’onore e il prestigio, i poliziotti intervenuti sul luogo dell’aggressione chiamati dalla giornalista.

Discreto profilo criminale anche per il figlio minore di Monica Laera, Ivan Caldarola, che sta scontando una condanna a otto anni per rapina ed estorsione e nel 2020 si è reso protagonista di una evasione di massa dal carcere di Foggia.

Maria Grazia Mazzola il 9 febbraio era in via Petrelli, a Bari, perché stava realizzando per Rai 1 “Ragazzi dentro”, un’inchiesta  sulla crescente militarizzazione del quartiere Libertà da parte dei clan, che arruolano i ragazzini, e don Francesco Prete, che quei giovani cerca di strapparli alle cosche. Con cameramen e telecamere nascoste, Mazzola era andata in via Petrelli, la strada dove risiede la famiglia Caldarola, e aveva cominciato a fare domande  sul rinvio a giudizio del figlio di Laera, Ivan, per violenza sessuale su una bambina. A quel punto Monica Laera era uscita per strada inveendo contro la giornalista e l’aveva aggredita con un pugno, minacciandola di morte con la frase: “Ehi non venire più qua che ti uccido”. Mazzola nello scontro aveva riportato danni permanenti e certificati all’orecchio sinistro.

La pm Lidia Giorgio della Direzione distrettuale antimafia di Bari aveva contestato a Monica Laera vari reati: minacce, lesioni aggravate, associazione mafiosa. La DDA di Bari, inoltre, aveva contesta l’articolo del codice penale 416 bis (associazione mafiosa) perché la minaccia di morte e l’aggressione fisica avevano l’obiettivo di controllare il territorio. Un aggressione dunque, secondo la Procura, non figlia di uno “sfogo” seguito ad un alterco tra due persone, ma una modalità mafiosa messa in atto, in maniera plateale, per punire la giornalista che aveva osato fare domande. Come se non bastasse, Laera, aveva chiesto e ottenuto il diritto di replica e rettifica, ottenendo di essere intervistata dalla Rai e in seguito ha querelato tre volte la giornalista per alcune interviste rilasciate a quotidiani nazionali.


Purtroppo, quello che riguarda la collega Mazzola non è affatto un caso isolato. Nel 2023 sono stati 98 gli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti, con il 30,6 per cento delle minacce (30 episodi) che risulta consumato tramite i canali web. I casi riconducibili a contesti di criminalità organizzata sono stati 12, mentre 40 sono quelli legati a contesti politico/sociali. Le regioni che hanno fatto registrare il maggior numero di eventi sono Lazio, Lombardia, Campania, Calabria e Sicilia, con 68 episodi complessivi (il 69,4 per cento del totale). Quanto alle aree metropolitane, il maggior numero di episodi è stato segnalato con riferimento a Roma (17 eventi), Milano (15), Reggio Calabria (8) e Napoli (6).  La buona notizia? Nel 2022 è andata peggio: quell’anno gli atti intimidatori sono stati 111.

Andrea di Quarto
andrea.diquarto@fastwebnet.it
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Le iconografie di Senza Bavaglio sono di Valerio Boni

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