Qualche anno fa, con una certa violenza verbale, chiesi al primo ministro etiope Melles Zenawi, morto a fine agosto, perché avesse cacciato alcuni giornalisti in galera. Conoscevo Melles assai bene perché lo intervistavo, di tanto in tanto, dalla fine degli anni ’70, durante la guerra contro la dittatura di Mengistu Hailè Mariam.
Alla mia domanda, tra il seccato e il deluso (avevo una certa considerazione delle doti politiche del capo etiopico), Melles chiamò la fedele segretaria Aster, che parla benissimo italiano, e mi fece tradurre alcune parti degli articoli che avevano causato l’arresto dei loro autori. Ascoltai Aster e, alla fine, Melles spiegò: “Hai sentito? Questi non sono giornalisti. Non pubblicano notizie, ma solo falsità, incitamento all’odio tribale. Questa gente non costruisce la democrazia e una nuova società. Propaganda il rancore e la violenza”. Non potei che dargli ragione. In quagli articoli non c’erano opinioni. O meglio le opinioni erano corredate da notizie falsificate ad arte, per giustificare l’odio e quindi il ricorso alla violenza.
Non a caso c’è una sostanziale distinzione tra il reato d’opinione e quello d’incitamento all’odio. Ma questo i giornalisti italiani – compresi purtroppo i dirigenti della nostra categoria – non l’hanno capito.
Quando è scoppiato il caso Sallusti mi è venuta in mente quell’intervista. Certo il contesto è differente, non siamo in Africa. Se qualcuno prendesse il machete o, peggio, un mitra, per farsi giustizia da sé finirebbe (presumibilmente) in galera. Contesto differente quello italiano, ma mezzi identici. Probabilmente nel caso Sallusti la galera è una punizione eccessiva, ma la condanna severa, etica, prima di tutto, per il suo comportamento, è doverosa.
C’è qualcosa che – secondo me – accomuna Sallusti all’etiope che scriveva quegli articoli terribili: entrambi fanno parte del mondo della propaganda. Entrambi utilizzano il loro giornale come strumento di lotta politica, non come mezzo di informazione. Non diffondono notizie ma fanno pubblicità. Il loro è un mestiere che non c’entra nulla con il giornalismo. Un’attività diametralmente opposta e in conflitto con esso.
L’errore di base – che hanno fatto quasi tutti i commentatori in questi giorni – è chiamare Sallusti (e tanti come lui) giornalista. Francamente mi imbarazza essere chiamato giornalista se il termine viene usato a sproposito. Non adoperatelo per me e per tanti colleghi onesti e puliti che, pur nella differenza dello opinioni, non utilizzano i loro articoli per fini che sono diversi da quelli dell’informazione o dell’espressione delle loro opinioni.
In questa vicenda parecchie cose mi sorprendono. Due in particolare:
Primo: non mi capacito che fior di giornalisti sostengano con caparbietà che Sallusti è stato condannato per un reato d’opinione. Non è vero: le opinioni sono state costruite su una notizia falsa, smentita almeno 24 ore prima. Fa rabbrividire il documento varato dal sindacato, che parlando di Sallusti, commenta così: “La Giunta della Federazione Nazionale della Stampa continua la sua battaglia per la cancellazione immediata di una norma illiberale che punisce con la galera le opinioni”. Macché opinioni qui si tratta di bugie, utilizzate per ingannare l’opinione pubblica.
Secondo: perché quanti hanno preso le distanze dalla versione ufficiale (quella descritta al primo punto) non si sono accorti che Sallusti è il figlio della scellerata organizzazione del giornalismo italiano? Oppure se ne sono accorti ma fanno finta di niente per convenienza. I dirigenti dell’Ordine non hanno mai letto i giornali faziosi che propagandano l’odio e non le informazioni? Insomma perché l’Ordine non ha mai sanzionato Sallusti quando scriveva le sue notizie inventate.
Come la peggiore politica, la corporazione dei giornalisti – destra, sinistra, centro, tutti – si chiude a riccio quando si tocca un suo membro e così la nota della FNSI ci racconta una panzana: “E’ inaccettabile che un giornalista (Sallusti, ndr) per fare il suo lavoro e per le sue opinioni rischi la galera. Non è da Paese civile”.
“Sicuramente – continua l’incredibile nota della FNSI – una Corte di Giustizia internazionale competente su queste materie cancellerà questa sentenza e sanzionerà l’Italia per il danno recato, perché in caso di conferma della condanna, il collega Sallusti dovrebbe intanto cominciare a scontare la pena in carcere per reato di opinione.”
Ripeto, la galera mi sembra eccessiva ma credo proprio che la Corte di cui si parla non sanzionerà alcunché perché si renderà conto facilmente che Sallusti non è stato condannato per un reato d’opinione. L’uomo non ha neppure chiesto scusa al giudice gravemente danneggiato da quell’articolo che aveva dovere – secondo la legge, forse iniqua ma sempre legge – di controllare.
Infine “il Sindacato dei giornalisti, quindi, torna a sollecitare il Parlamento ad avviare riforme che liberino il nostro Paese e lo pongano allo stesso livello di civiltà giuridica delle nazioni a democrazia avanzata”. Non una parola sull’Ordine che non è previsto in nessuno di quei Paesi a democrazia avanzata che la FNSI definisce “civili”.
Io credo che Sallusti non sia un collega, non sia stato condannato per un reato d’opinione e se ne deduce facilmente che se c’è qualcosa di arretrato nel nostro Paese è quell’Ordine che ha sentenziato che Sallusti è un collega.
Anche il comunicato dell’Ordine della Lombardia infatti è imperniato su qualcosa di surreale. L’estensore anonimo dell’articolo pubblicato sul suo sito si stupisce perché Sallusti è responsabile “solo di omesso controllo per un articolo non scritto da lui che il tribunale ha riconosciuto diffamatorio con una condanna a una pena pecuniaria in primo grado, alla quale si è aggiunta una pena detentiva in secondo grado. Se la condanna dovesse essere confermata in Cassazione e Sallusti dovesse finire in carcere ci troveremmo di fronte non solo a una pena sproporzionata nel caso specifico, ma anche a un meccanismo, quello della condanna per omesso controllo, che applicato in questo modo costituisce una minaccia per la libertà di stampa”.
Credo che l’estensore di questo articolo non abbia mai lavorato in un giornale giacché non ne conosce i meccanismi: primo. il direttore conosce perfettamente i nomi che si celano dietro gli pseudonimi. Secondo, nessun direttore avrebbe messo in pagina un articolo su un argomento scottante di quel genere senza leggerlo prima e dare il suo imprimatur.
Certo le norme sulla diffamazione vanno cambiate ma vanno depenalizzate quelle che colpiscono le opinioni, non quelle che puniscono la diffusione di notizie fraudolente e tendenziose . Se un giornalista scrive deliberatamente e dolosamente il falso deve essere punito. E’ così che si difende il giornalismo, il suo prestigio e la sua autorevolezza. La FNSI ha toppato ancora perché con la sperticata e acritica difesa di Sallusti, non ha difeso il giornalismo, ma la casta.
Il caso Sallusti può essere la buona occasione per lanciare una campagna per abolire l’Ordine dei Giornalisti, altro carrozzone da cancellare. Chi ci sta?
Massimo A. Alberizzi
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