Lavoro: Riforma Fornero? Così non va!

 

Il testo – approvato dal Senato in prima lettura il 31 maggio 2012 – è dal 7 giugno all’esame della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati. Il tutto dovrebbe concludersi entro il giorno 27, perché il Presidente Monti, lo continua a ripetere, vuole presentarsi al vertice di Bruxelles dei capi di stato e di governo con la riforma approvata, quasi che dal nostro articolo 18 dipendessero i destini dell’intera Unione Europea, forse dell’Occidente. Monti non vuole perdere credibilità dopo aver assicurato i suoi colleghi degli altri Paesi sull’abolizione delle tutele.

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Il disegno di legge (alla Camera dei Deputati n. 5256) si sviluppa attraverso varie e distinte linee di intervento che meriteranno, una volta approvata la legge, approfondite e specifiche riflessioni da parte degli operatori della materia. Ma la questione più urgente concerne le tutele dell’impiego per l’impatto che avrà, da un lato, sui rapporti di lavoro, anche se le nuove regole dovessero avere una decorrenza non immediata, dall’altro, sull’attività di tutti di operatori, a cominciare da giudici ed avvocati. Di certo, anche gli altri punti della riforma andranno studiati, a cominciare dalla c.d. razionalizzazione delle tipologie contrattuali esistenti e dagli ammortizzatori sociali (la nuova ASpI).

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Quando si è insediato il governo tecnico, che – sul piano della correttezza istituzionale e della credibilità internazionale – pareva proprio avere le carte in regola, abbiamo tutti preso atto degli impegni assunti per il contenimento del precariato e per il rafforzamento dello stato sociale. Io – non mi vergogno di ammetterlo – ero tra quegli incorreggibili ottimisti che si erano illusi che il nuovo governo avrebbe provato a rimuovere o modificare quei provvedimenti legislativi voluti dal centro-destra che avevano attenuato le tutele dei lavoratori. Mi riferisco in particolare al ”collegato lavoro”. Ma il testo della riforma, alla faccia degli impegni assunti dal governo dei professori circa l’aumento dell’occupazione stabile e la lotta al precariato, evidenzia una concezione delle relazioni industriali non dissimile da quella del governo che l’ha preceduto. Infatti, anche in materia di diritto del lavoro, rilevo non pochi e preoccupanti elementi di continuità con il governo precedente. Osservo anzi che il governo dei tecnocrati sta per falcidiare i diritti sociali, ottenendo sulla pelle dei lavoratori dei risultati che neppure il governo di centro-destra si sarebbe sognato di portare a casa in un colpo solo (sostanziale fine della tutela reale e contratti a tempo determinato senza causale).

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Mi pare fuori discussione che la diminuzione delle tutele del licenziamento non sia sicuramente lo strumento adeguato per risolvere i problemi che affliggono il mercato del lavoro del nostro Paese. Non sono, peraltro, il solo a ritenere che il diminuire le tutele potrà avere effetti negativi a cascata, in quanto spingerà le imprese verso la flessibilità numerica della forza-lavoro, al fine di risparmiare sui costi.

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E’ significativo il titolo stesso del disegno di legge, riforma del <<mercato>> del lavoro, come pure l’utilizzo in un testo di legge del termine “flessibilità”, che, da anni, è tra i termini più usati dagli economisti e dai politici di tutti i partiti (una vera e propria ossessione): maggiore “flessibilità” significa maggiore facilità di licenziare il personale o di assumerlo in rapporto all’andamento della produzione; minore “flessibilità” vuol dire minore facilità di licenziare il personale o di assumerlo. Si fa così sempre più strada l’idea, assolutamente inaccettabile, che il lavoro possa essere trattato come una merce che ci si procura quando serve e si butta via quando non serve più, senza badare ad altre considerazioni. Un’idea che mi sembra francamente in conflitto radicale con i valori su cui si fonda la Costituzione della nostra Repubblica.

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Il comma 1 dell’art. 1 del disegno di legge – che individua gli “obiettivi generali della riforma” (mercato del lavoro inclusivo e dinamico – creazione di occupazione – riduzione permanente del tasso di disoccupazione) – costituisce una sorta di vero e proprio preambolo. Le finalità indicate dal legislatore dovrebbero essere perseguite soprattutto attraverso: a) l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili, con il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo determinato (cosiddetto “contratto dominante”) e b) la ridistribuzione in modo più equo (sic !) delle tutele dell’impiego, contrastando l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità relativi alle (attuali) tipologie contrattuali ed adeguando alle esigenze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento. Ma questo preambolo è in contrasto con il contenuto del disegno di legge. Basta leggere la nuova disciplina del contratto a tempo determinato. Infatti, con il comma 9 – con cui viene modificato il decreto legislativo 368/2001 – il datore di lavoro può fare ora a meno di indicare le ragioni di carattere tecnico-produttivo, organizzativo o sostitutivo ai fini della stipulazione del primo contratto a termine, purché sia di durata non superiore ad un anno. Il legislatore in questo modo favorisce proprio quella flessibilità incontrollata (“cattiva”) che sostiene di voler contrastare.

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3 E veniamo alla principali novità sui licenziamenti. Per quanto riguarda i licenziamenti individuali sono previste dal disegno di legge sostanziali modifiche dell’articolo 18. Nella sua formulazione originaria l’articolo 18 che, nella cultura sindacale ed in quella giuridica progressista e garantista, è considerato l’architrave di tutti i diritti del lavoro, perché ne consente il libero esercizio, rappresenta da oltre 40 anni un equo contemperamento degli interessi nel rapporto di lavoro. La nuova disciplina dei licenziamenti individuali sostituisce quasi completamente quella precedente che ha funzionato e bene, a mio avviso, per più di 40 anni. Senza entrare nel dettaglio delle nuove regole prima di disporre di un testo definitivo, ovvero di una legge approvata dai due rami del Parlamento, credo che valga la pena cominciare a fare subito mente locale su quattro punti che definirei centrali della riforma delle tutele dell’impiego.

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1) Il criterio della reintegrazione nel posto di lavoro – che costituisce tuttora la regola in tutte le ipotesi in cui il licenziamento sia ritenuto nullo, inefficace o comunque invalido – diventerà un’eccezione, tranne che nei licenziamenti discriminatori (fattispecie difficile da accertare per le ovvie difficoltà sussistenti sul piano probatorio).

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2) Il dato più rilevante, secondo me, è costituito, però, dal regime sanzionatorio differenziato, a seconda della gravità dei casi in cui sia accertata l’illegittimità del licenziamento: reintegrazione nei casi più gravi (“tutela reintegratoria piena”) o pagamento di un’indennità risarcitoria nei casi meno gravi.

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3) Il legislatore fissa ora dei precisi “tetti” all’indennità risarcitoria da corrispondere al lavoratore illegittimamente licenziato: in tal modo scarica sulla parte debole del rapporto le conseguenze di un atto illegittimo del datore di lavoro, malgrado la durata della causa non dipenda quasi mai dal lavoratore, il quale ne resta danneggiato, anche se la sua domanda ha trovato pieno accoglimento. Peraltro, una più attenta applicazione dell’art. 1227 c.c. (<<Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate>>) nelle cause di licenziamento potrebbe far superare – senza ricorrere alla fissazione di “tetti” invalicabili – il rischio di megarisarcimenti in capo ai datori di lavoro, in tutte situazioni in cui il lavoratore (creditore danneggiato) ha la possibilità,

4 usando l’ordinaria diligenza, di evitare di aggravare con il suo comportamento la situazione. Peraltro, osservo che problema, in concreto, è stato già superato con l’art. 32 della legge 4 novembre 2010 n. 183, per cui mi pare che ora sia esageratamente enfatizzato. Infatti, non vi sono più controversie promosse a distanza di molto tempo dall’intimazione del licenziamento e le eventuali retribuzioni medio tempore maturate e da pagarsi al lavoratore in caso di licenziamento dichiarato illegittimo non possono più riguardare anche quei “tempi morti” un tempo non imputabili al datore di lavoro, ma allo stesso lavoratore. In proposito, ed in un’ottica di giustizia sostanziale rispetto a tutte le parti del rapporto, non sono in linea di principio del tutto contrario all’ulteriore riduzione del termine entro il quale deve essere depositato il ricorso in cancelleria, mentre reputo inaccettabile la fissazione dei c.d. “tetti” all’indennità risarcitoria da corrispondere al lavoratore illegittimamente licenziato (si pensi alla situazione di un lavoratore licenziato che perde la causa in Tribunale e in Corte d’Appello, ma che poi vede accolte le sue domande dalla Corte di Cassazione a distanza di anni).

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4) La c.d. corsia privilegiata per i licenziamenti (comma 47 e seguenti testo Camera), che di per sé non valuto negativamente – anche se dovrebbe essere pacifico per tutti che dovrà essere accompagnata da seri interventi di carattere organizzativo, ossia da un consistente aumento degli organici, che magari potrebbero attuarsi in occasione dell’abolizione dei c.d. Tribunali minori – potrà forse rendere più brevi le cause di licenziamento ed evitare in parte gli inevitabili danni che potrebbero derivare ai lavoratori dalle nuove disposizioni sui “tetti” all’indennità risarcitoria. Il nuovo rito richiederà l’impegno degli avvocati, affinché la “tutela urgente” venga richiesta soltanto quando ne ricorrono effettivamente i presupposti, altrimenti il nuovo rito, invece di migliorare la situazione, finirà per peggiorarla.

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Dovremo abituarci che, una volta approvata la riforma, saranno quattro le fattispecie di licenziamento e quattro i trattamenti sanzionatori con una serie di variabili. Dopo l’approvazione della legge, si dovranno fare i necessari approfondimenti sulla forma e sul contenuto delle nuove disposizioni. Per ora mi limito a specificare quale sarà la nuova classificazione: I. licenziamento nullo – discriminatorio o intimato in presenza di una causa di divieto o intimato in forma orale: è confermata la normativa precedente: reintegrazione ed indennità dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione – minimo 5 mensilità, come adesso;

5 II. licenziamento illegittimo per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo (c.d. licenziamento disciplinare), con una distinzione tra le ipotesi più gravi e quelle meno gravi; le più gravi sarebbero quelle connesse all’insussistenza del fatto contestato o ad un fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa; soltanto per tali ipotesi avremo sia la reintegrazione, che l’indennità risarcitoria con un “tetto” di 12 mensilità, ma senza un numero minimo garantito di mensilità (è stato soppresso il limite minimo di 5 mensilità); per tutte le altre ipotesi, considerate meno gravi, ci sarà solamente l’indennità risarcitoria da un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità;

III. licenziamento illegittimo per mancanza di giustificato motivo oggettivo (c.d. licenziamento per motivi economici): ci sarà solo l’indennità risarcitoria da un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità; il giudice, solo in caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, potrà – non dovrà – disporre la reintegrazione ed il pagamento dell’indennità risarcitoria fino ad un massimo di 12 mensilità;

IV. licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione o della procedura disciplinare o, per i soli licenziamenti per motivi economici, della procedura di conciliazione (comma 40 testo Camera): anche per questi licenziamenti ci sarà solo l’indennità risarcitoria da un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità.

In considerazione delle sanzioni previste in caso di licenziamento inefficace, il diritto di difesa del lavoratore risulta compresso sotto un ulteriore e distinto profilo, dal momento che si offre al datore di lavoro, che viola la disposizione relativa alla specificazione dei motivi contestualmente alla comunicazione del licenziamento, la possibilità di mettere subito un primo paletto – in danno del lavoratore – riguardo al tipo di tutela da applicarsi in giudizio. Questo punto mi pare uno dei più eclatanti per rendersi conto dell’atteggiamento di questo governo e dell’intera maggioranza che lo sostiene in materia di rapporti dei lavoro.

 

Alvise Moro
avvocato giuslavorista

 

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