Gli accordi che segnano l’inizio dello stato di crisi al “Messaggero” sono pessimi. Anzi, non sono neppure accordi: un accordo è un patto liberamente stipulato fra due o più soggetti. Qui uno dei contraenti, il Comitato di redazione, è stato pesantemente ricattato dall’altro.
La direzione aziendale si muove da oltre quindici anni secondo una logica arrogante secondo cui il giornale guadagna (centinaia di milioni di euro dall’ingresso nel gruppo Caltagirone) perché i manager sono bravi, perde perché i giornalisti sono troppi.
Alla trattativa – chiamiamola così solo per comodità lessicale – sullo stato di crisi, la direzione aziendale si è presentata deponendo sul tavolo una pistola carica: decine di richieste di cassa integrazione, già compilate, pronte da spedire al ministero del Lavoro.
Dopo una strenua resistenza, la maggioranza del Comitato di redazione non se l’è sentita di far correre questo rischio a tanti colleghi, e ha firmato.
Una minoranza riteneva che si trattasse di un bluff, e ha preferito non firmare.
Non mi pronuncio su quale delle due posizioni sia da condividere: mi sono trovato in situazioni analoghe a quella, so fin troppo bene che è impossibile giudicare queste scelte.
Di una cosa sono assolutamente certo, ed è l’assoluta buona fede di tutti i membri del Cdr, che conosco a fondo. Hanno tutti agito secondo coscienza, e vanno tutti ringraziati per aver avuto il coraggio di assumersi delle responsabilità, di fronte a una controparte di cui la Federazione editori dovrebbe vergognarsi.
Michele Concina
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