C’è stata una grande mobilitazione contro la legge bavaglio sulle intercettazioni, ma nessuno s’incatena sotto la Camera contro la riforma dell’Ordine dei giornalisti, un provvedimento che intende limitare l’accesso alla professione, imponendo il percorso attraverso università e scuole di giornalismo come unico canale di accesso alla professione.
Appena uscito dalla Commissione cultura per approdare nell’Aula, il disegno di legge in questione, prevede che un aspirante giornalista sia laureato e passi OBBLIGATORIAMENTE attraverso un apposito corso post universitario per poter essere ammesso all’esame di stato.
Si tratta di un modello assolutamente intollerabile in un paese democratico, a mio avviso ben più intollerabile dalla legge sulle intercettazioni.
E’ infatti un modello d’accesso che trova riscontro solo in alcuni regimi totalitari del passato, dalla Germania nazista alla Spagna di Franco, dall’Italia fascista, quando a governare era un giornalista diventato dittatore, alla Repubblica democratica tedesca, quando per poter fare questo mestiere bisognava prima studiare per bene il pensiero socialista all’università Karl Marx di Lipsia.
Negli Stati Uniti, i primi corsi universitari di giornalismo voluti da Joseph Pulitzer nascono nei primi del ‘900, ma, a tutt’oggi, non esiste un titolo legale per accedere alla professione giornalistica. E’ giornalista chi lo fa.
Il senso dell’obbligo, e sottolineo l’obbligo, di fare passare i futuri giornalisti attraverso un percorso d’istruzione formale è tutto racchiuso in questo passaggio di un articolo del Torchio, giornale dei giornalisti italiani, del giugno 1928: “La scuola creerà la nuova classe educata ai più severi principii: la nuova milizia dalla mentalità uniforme, omogenea, agile, animata da un unico spirito, da una sola volontà; addestrata all’esercizio cosciente della propria professione; protesa verso un unico fine”. Insomma, è un’idea balorda e liberticida – come spiegherò, ancora una volta, nel mio nuovo saggio-inchiesta di prossima pubblicazione – che può continuare a trovare proseliti solo in un paese in cui giornalismo e politica sono avvinti in un insano abbraccio da almeno due secoli.
Il disegno di legge in questione altro non è che la “rivoluzione copernicana” (sic!) del documento di indirizzo per la riforma della professione che l’Ordine dei giornalisti ha formulato per la prima volta nel 2002, riproposta da un gruppo di nostri colleghi diventati deputati. Il primo firmatario è Pino Pisicchio, eletto nell’Italia dei valori poi passato all’Alleanza per l’Italia, il movimento di Francesco Rutelli.
Gli altri sono: Sandra Zampa (Pd), capo ufficio stampa di palazzo Chigi con Prodi; Giancarlo Mazzuca (Pdl), ex direttore del Quotidiano Nazionale e Resto del Carlino; Francesco Pionati, ex vicedirettore del Tg1, eletto nell’Udc ha poi dato vita all’Alleanza di centro per l’Italia; Giorgio Merlo (Pd), giornalista Rai; Giuseppe Giulietti, eletto nell’Italia dei valori (ma è del Partito democratico), già segretario dell’UsigRai; Roberto Rao, Udc, pubblicista, membro della commissione di vigilanza Rai; Matteo Salvini, Lega Nord, cessato dal mandato dopo aver optato per il parlamento europeo; Giancarlo Lehner, Pdl, ex direttore de l’Avanti! e autore di diversi libri sul comunismo; Piero Testoni, Pdl, responsabile editoria e comunicazione di Forza Italia.
Dunque, l’intesa è bipartisan: da destra a sinistra, i politici sono tutti d’accordo nel voler inquadrare in un rigido percorso di studi gli aspiranti giornalisti.
L’Ordine dei giornalisti propone oggi una riforma liberticida da paese totalitario, che appare congeniale solo al sistema universitario italiano, sempre in cerca di nuovi specchietti per attrarre studenti, non certo alla categoria dei giornalisti. Vediamo perché.
In sette anni, dal 2003 al 2010 sono stati ammessi all’esame di stato 1800 allievi provenienti dalle scuole riconosciute dall’Ordine. Il che significa che 1800 aspiranti professionisti privi di un contratto di lavoro come coloro che sono stati ammessi come vuole la legge, sono stati immessi in un mercato del lavoro che interessa poco più di 15 mila professionisti, se andiamo a vedere gli ultimi dati sulle contribuzioni Inpgi.
Agli allievi delle scuole si vanno ad aggiungere i cosiddetti riconoscimenti d’ufficio, vale a dire gli ammessi all’esame di stato senza un contratto di lavoro “canonico”, ma ai quali l’Ordine ha riconosciuto un praticantato equivalente a quello previsto dalla legge, per contenuti e per reddito. La conseguenza è che negli ultimi anni i giornalisti disoccupati sono aumentati esponenzialmente: nel 2004 c’erano 1.500 iscritti negli elenchi tenuti dalla commissione paritetica Fieg-Fnsi, nel 2006 erano 2.650.
L’ultimo dato che ho raccolto dalla Fnsi è relativo a settembre 2010: i disoccupati erano 4.718.
Il reddito rappresenta il pilastro su cui si poggia tutto l’impianto normativo ââ¬â contrattuale della nostra professione. Un pilastro che appare oggi gravemente lesionato. Infatti, da più di ottanta anni diventa professionista chi lavora già: la figura del praticante compare nell’ordinamento nel 1928 con il decreto d’attuazione della legge sulla stampa del 1925, trova riconoscimento nel contratto di lavoro del 1932 e in quello del 1939 ne viene previsto il trattamento economico. L’ammissione degli allievi delle scuole avviene per un breve periodo in quegli anni ed è previsto da un regio decreto del 1929 che verrà implicitamente abrogato con la legge 69 del 1963 che è quella attualmente in vigore.
Quindi, ciò che l’Ordine sta permettendo oggi è contro la stessa legge che lo istituisce, come hanno fatto notare i deputati radicali al ministro della giustizia Alfano in un’interrogazione parlamentare della fine del 2008 che però non ha ancora ottenuto risposta.
Tuttavia, potremmo guardare questa esperienza come una sorta di fase sperimentale ad uso e consumo del disegno di legge uscito dalla Commissione cultura della Camera. Ma qual è il risultato della sperimentazione? Quasi cinquemila disoccupati: questo è il risultato.
D’altronde, durante l’acceso dibattito sulle scuole in epoca fascista, Curzio Malaparte l’aveva pronosticato, così pure il deputato democristiano Mariano Pintus durante i lavori preparatori della legge 69 del 1963: scuole di giornalismo uguale fabbriche di disoccupati.
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