Novantanove giornalisti e operatori dell’informazione uccisi e 136 imprigionati in tutto il mondo nel 2009. Questo il bilancio stilato dall’associazione newyorchese Committee to protect journalists (Cpj) nel suo ultimo rapporto Attacks on the press 2009 . Numeri che parlano chiaro e che fanno dell’anno appena concluso il più nero dal 1992, da quando cioè l’organizzazione ha cominciato a tenere il conto delle uccisioni.
Quella del reporter, soprattutto quando al governo ci sono regimi repressivi, continua a essere una professione pericolosa. Un mestiere, spiega l’indagine, ancora più rischioso se si è giornalisti freelance o online e non si po’ contare sulla protezione di organizzazioni strutturate e influenti. Tuttavia, il ruolo di chi cerca di fare informazione su Internet e per conto proprio, dice lo studio, “è più importante che mai” in un contesto in cui “la tecnologia sta cambiando il modo in cui la gente nel mondo raccoglie e riceve l’informazione” e le “testate internazionali tagliano gli staff e chiudono gli uffici all’estero”.
VULNERABILI ONLINE – Se così stanno le cose, non sorprende che le statistiche di Attacks on the press 2009 mettano in luce la vulnerabilità di queste tipologie di reporter. Dei 136 giornalisti arrestati lo scorso anno, 68 hanno usato il Web come luogo di diffusione dei propri lavori, una cifra che rende la rete il medium che ha pagato il più alto tributo alla libertà di stampa (sono 51 i reporter della carta stampata finiti in galera). Tra coloro che sono stati imprigionati, fa notare l’indagine, ben 60 erano freelance.
POLITICA PERICOLOSA – Quanto ai motivi che hanno portato al carcere, la ragione più frequentemente invocata dalle autorità per giustificare la repressione è l’attività “antistatale”: con tale accusa sono stati incarcerati 64 giornalisti. I temi politici restano, in generale, i più pericolosi da trattare, se è vero che dei 71 reporter uccisi per i quali è stata accertata la motivazione dell’assassinio 48 (il 68%) si occupavano proprio di questi argomenti.
PAESI A RISCHIO – Nella classifica dei Paesi dove è più difficile raccontare la verità sono balzate in testa, secondo lo studio, le Filippine, anche in conseguenza dell’attentato di Ampatuan dove, nel novembre, scorso hanno perso la vita anche 31 operatori dell’informazione. Seguono in questa non edificante graduatoria Somalia (9 giornalisti uccisi), Iraq e Pakistan (entrambi con 4). Sul fronte delle incarcerazioni si distingue la Cina con 24 reporter finiti dietro le sbarre, seguita da Iran (23), Cuba (22) e Eritrea (19).
IL RUOLO DELLA RETE – In questo quadro difficile il rapporto sembra individuare uno squarcio di ottimismo e speranza nelle potenzialità dischiuse dalla rete per la difesa della libertà di stampa. I blog, le e-mail e l’uso massiccio dei social network possono essere usati proficuamente per mettere a punto iniziative di pressione nei confronti di governi repressivi. “La buona notizia – scrive Joel Simon, direttore esecutivo del Cpj nell’introduzione al rapporto – è che queste nuove strategie sono efficaci anche in luoghi in cui non ti aspetti”. Lo dimostrano, secondo Simon, la campagne internazionali che hanno giocato un ruolo in Iran nella liberazione del corrispondente di Newsweek Maziar Bahari e della freelance Roxana Saberi. Analogamente le voci di protesta (anche virtuali) hanno avuto parte nel rilascio di tre giornalisti a Burma nell’ambito di un’amnistia per detenuti politici, e in Gambia dove 6 giornalisti, imprigionati senza prove con l’accusa di sedizione, sono stati infine prosciolti.
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