Il sindacato e l’assassinio in progress di una professione

Speciale per Senza Bavaglio
Giovanna Tatò
2 febbraio 2021

Tutto è cominciato con l’inganno, una maschera accattivante posta sui due poli positivo e negativo di un insieme composto da onestà, voglia di capire e di far capire, disincanto, ipocrisia e opportunismo. Categorie etiche di un’etica finita al macero come finisce la carta stampata.

Per un bel periodo ci ho creduto. La notizia non è merce, siamo tutti d’accordo. C’era euforia, mi sembrava, voglia di combattere per innalzare la soglia della consapevolezza generale attraverso il nobile mestiere di informare sui fatti e allora, congressi sindacali interminabili, notti in bianco a centellinare concetti e programmi di attacco per sbriciolare muri e riempire vuoti, editori “puri” che non c’erano e stipendi adeguati, libertà di stampa e autonomia del giornalismo, il sindacato a difesa, mobilitazioni, scioperi, solidarietà. Era una grande stagione, mi sembrava.

Ma, al coperto, si infiltrava un veleno non facile da vedere e, anche se visto, non appariva facile trovarne l’antidoto: l’utilizzo di un servizio che doveva essere a vantaggio del pubblico, l’informazione corretta, a volte audace e comunque non organica al potere, per costituire gruppi di pressione a vantaggio di pochi. L’isolamento di queste avanguardie non era condiviso abbastanza e il sindacato divenne lentamente trampolino di lancio per trattare ai livelli pertinenti carriere e percorsi personali di vario genere. La sua radice veniva svilita, una nebbia di servilismo opacizzava tutto.

Il punto di svolta per me, il momento della caduta del velo, fu quando durante un congresso della Federazione Nazionale della Stampa Italiana mi accorsi che il sindacato dei giornalisti e gli organi collegati come la Casagit, l’Ordine Nazionale e l’I.N.P.G.I diventavano un rifugio non solo per mettere al riparo carriere bloccate nelle redazioni ma per dare ad esse uno sbocco. Di fronte all’emarginazione di fatto, al tetto invisibile sopra la testa, all’impossibilità di vedere raccolta la propria voce, l’unica soluzione trovata da alcuni era mettersi la spilletta di una corrente sindacale e cercare di raggiungere un posto in queste quattro casseforti facendosi notare, già pronti a piegare la schiena, con discorsi roboanti o meno, magari scegliendo il gruppo maggioritario di spinta più potente per arrivare ai vertici.

Alle frange minoritarie restava il vero compito sindacale di sudare per rafforzare nella professione il ruolo di guardiano della democrazia. Ma anche nel gruppo maggioritario, sebbene confortevole da molti punti di vista, non era facile mantenere la testa in emersione, specialmente per le donne: vidi colleghe faticare molto più dei colleghi nel cercare gli appoggi politici necessari. E questi colleghi entravano in lizza durante le elezioni nazionali di categoria trasformando sempre più il sindacato e gli altri organismi di tutela della categoria da strumenti della libertà di informazione e di espressione di tutte le voci della società a debole specchio passivo che rifletteva una situazione di rilievo o, al massimo, a strumento di mera denuncia di facciata.

Non emergevano obiettivi di alto profilo deontologico: si trattava solo di giustificare lo stare in qualche vertice con una prebenda assicurata, materiale o onorifica, e disporre di una vetrina utile. Questo tipo di collega “sindacalista” aveva sfumature variegate ma fondamentalmente vedeva solo molta zavorra in giro e schivava accuratamente, a volte anche con tattiche di emarginazione, chi cercava di ricondurre la professione nell’alveo originario che le spettava.

Le formazioni sindacali minoritarie avevano coraggio ma poca o nessuna influenza. Erano assediate da quelle complicità che un sindacato avrebbe dovuto combattere. Mangiata la foglia, direttori e editori facevano strame dei comitati di redazione e dei loro alibi di salvaguardia dei posti di lavoro. Pochissimi sono riusciti a salvarsi dalla vergogna.

A questo degrado ha contributo senz’altro l’irruzione di certa televisione nel campo dell’informazione. Dall’infotainment di marca anglo-americana, la commercializzazione dell’informazione dilagò senza grandi ostacoli, catturò largo pubblico al servizio di qualche gruppo di potere e l’autonomia dell’informazione venne ridotta al suo livello più basso. Tale contributo non solo continua ma si è “arricchito” della presenza dei nuovi canali tecnologici, in particolare dell’informazione via web, con la deriva che tutti conosciamo delle fake news.

Il diramarsi delle notizie via internet ha sostituito nelle redazioni il giornalista alla ricerca delle notizie attraverso le fonti e la loro indispensabile verifica; motivi di risparmio sempre presenti nei CdA degli Editori, hanno tagliato le gambe alla presenza dei giornalisti where the action is riducendone il numero e il ruolo. Non c’è dubbio che questi forti cambiamenti nel mondo dell’informazione abbiano inciso sull’incremento del disincanto nella professione giornalistica: eppure, il sindacato avrebbe dovuto dotarsi di un largo margine di manovra per proteggere e favorire la dignità della notizia e il giornalismo investigativo, finito ormai all’angolo.

La parola “sindacalista” per me era nobile, un complesso di ideali e di lotte anche di reminiscenza sanguinosa. Distillata dalla vita di mio padre, Tonino Tatò, dal suo entourage che entrava e usciva da casa sotto i miei occhi fino a poco prima che diventasse il braccio destro di Enrico Berlinguer, “sindacato” significava che gente che vedeva violati diritti costituzionali inalienabili aveva dove andare per lottare contro il salario inadeguato, contro l’orario sfibrante, per avere una vita dignitosa e rispettata, un futuro.

Trasportato dalle categorie sociali al giornalismo, questo per me voleva dire smascherare il cuore nascosto del potere, aiutare i lettori a decifrare i messaggi camuffati e le menzogne dilaganti, ad essere informati su quello che non sapevano e dopo, quando ho lavorato in RAI per il telegiornale, a “vedere” la realtà di quello che ci circonda in modo critico anche se la realtà non piaceva ed essere critici era uno sforzo.

Per come stanno andando le cose, non ci sono molti argini a che questo sforzo sia sempre più grande.

La classifica 2020 presentata da Reporter Without Borders in merito alla libertà di stampa nel mondo pubblicata nell’ottobre 2020 vede l’Italia al 41° posto, dietro tutte le altre maggiori potenze europee e Paesi in via di sviluppo come la Namibia e il Burkina Faso. E non può consolare che nella medesima classifica gli Stati Uniti di Donald Trump siano al 45°.

Giovanna Tatò
Ritirata dal lavoro come Vice Caporedattore di RaiNews24
e Inviata Speciale del Tg3 Nazionale

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