Speciale per Senza Bavaglio
Andrea Montanari
Milano, 12 dicembre 2020
Che succede in Condé Nast? Il grande gruppo americano da tempo ha una visione non ordinaria, o se vogliamo ortodossa, del concetto di editoria e informazione. Perché, come sanno i tanti colleghi che negli ultimi anni se ne sono andati, anche con lauti e dorati scivoli (fino a 36 mesi se non 40), ma anche per forti “pressioni” dall’alto, la mission della società è drasticamente cambiata.
Ma senza centrare gli obiettivi imposti da Oltreoceano e avviati dal management. Basti dire che lo scorso anno, la branch nazionale di Condé Nast è scesa sotto la soglia dei 100 milioni di ricavi (99 milioni. -6,4%) e ha registrato una perdita di oltre 13 milioni rispetto a un rosso di 3,67 milioni dell’anno precedente. Una drastica inversione di tendenza rispetto agli esercizi precedenti quando dall’Italia fioccavano dividendi milionari alla casa-madre.
Artefice, per modo di dire, di queste performance non certo brillanti è stato l’ad Fedele Usai, in azienda dal 2011 e dal giugno del 2017 amministratore delegato, al posto dello storico top manager Giampaolo Grandi, il “costruttore” dell’azienda italiana di fatto. Usai, in teoria, aveva appreso dal maestro Grandi le strategie, essendo entrato in Condé Nast con i galloni di direttore generale, non certo quindi un rincalzo. Ma nonostante i roboanti e plurimi annunci non ha mai portato a casa i risultati promessi. E così si è dimesso.
Eccezione fatta per il taglio, massiccio, di personale, in particolare giornalistico: decine e decine di colleghi lasciati senza un futuro ma solo con qualche assegno più o meno robusto. Una parabola particolarmente discendente quella di Usai che ha completato il percorso con l’uscita di scena di questi giorni. L’ex, a questo punto, enfant prodige di Condé Nast, con un trascorso che di editoriale e giornalistico non ha nulla – era nelle agenzie pubblicitarie Tbwa, Bgs, Bates e Leo Burnett – per poi assumere il ruolo di responsabile worldwide della comunicazione di Fiat Automobiles, ha evidente sbagliato la strategia industriale.
Del resto era inevitabile. Lo si intuiva già dalle linee programmatiche, definite al momento del passaggio di consegne Grandi-Usai: si esaltava la strategia “Reinvent the business”. E lui lo ha fatto. Ha ridisegnato un’azienda che era un esempio di profittabilità e l’ha trasformata in un ibrido social-commerciale che nessuno ha mai capito. Del resto uno dei fiori all’occhiello del gruppo è stata la Talent Social Agency. Reclamizzata in pompa magna nell’autunno del 2018, già a pochi mesi di distanza nessuno ne sapeva più nulla.
Si voleva – e forse si è fatto – sostituire i giornalisti con gli influencer, figure che invece di essere regolarmente pagate e contrattualizzate, molto probabilmente venivano omaggiate con gadget. Una scelta che aveva provocato dure reazioni da parte delle redazioni e dei Cdr. Ci sono state svariate manifestazioni sotto la sede del Gruppo, spesso non gradite all’azienda che non si è mai palesata in strada per cercare un dialogo. Preferivano tagliare, tagliare e tagliare ancora. Fino a che non è stato tagliato il taglatore, cioè il capo operativo.
Del resto lo stesso Usai, da quel che si racconta nel mondo editoriale, non aveva partecipato alla recente selezione del nuovo capo europeo di Condé Nast, preferendo non inviare il cv per la selezione made in Usa. Certo, avrebbe dovuto spostarsi a Londra. Così l’arrivo del nuovo capo-azienda continentale, Natalia Gamero del Castillo – che con ogni probabilità porterà a un nuovo repulisti di dirigenti di prima fascia e a una revisione dei piani nei singoli Paesi – ha fatto perdere importanza all’ad dell’Italia.
Che si può comunque consolare con la vice presidenza del Cagliari Calcio, squadra della terra natia. Un po’ poco. Anche se magari per Usai si apriranno altre e nuove porte. Quello che è invece tutto da capire e definire è il futuro del business di una azienda che, come accade anche per l’altro player internazionale dei periodici, Hearst, è costretta a restare in Italia: abbandonare il mercato e in particolare Milano significherebbe volere dire addio ai robusti budget delle maison di moda che periodicamente affollano – certo non in tempi pandemici – le passerelle e le vie dello shopping. Ed è quello che al momento resta oscuro. Per i dipendenti e per il mercato. E non è certo un bel segnale.
Andrea Montanari
Presidente del Collegio dei Revisori dei Conti dell’Ordine della Lombardia
Consigliere generale dell’INPGI
amontanari@class.it
twitter @ilmontanari
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