Speciale per Senza Bavaglio
Morena Mancinelli
Roma, 8 marzo 2019
Amore malato, raptus, lei lo tradiva, se l’è cercata, perché non lo ha lasciato?, era un bravo ragazzo, un padre buono, follia: le parole da bandire. Come era vestita, i particolari raccapriccianti, il tipo di ferite: le informazioni da non dare.
Le parole possono aiutare le donne a denunciare violenze e sopraffazioni, possono contribuire a orientare l’agire delle nuove generazioni e lo sguardo degli uomini. Sbagliare il linguaggio, di contro, può provocare danni gravissimi, contribuendo a rafforzare pregiudizi e stereotipi e causando un dolore supplementare e inutile alle vittime.
É per questo che, durante la tappa fiorentina del progetto Stop alla violenza di genere, formare per fermare, promosso dal Gruppo Menarini e accreditato dall’Ordine dei Giornalisti della Toscana presso l’Ordine Nazionale, è stato messo a punto un decalogo di parole e stereotipi sbagliati per raccontare la violenza di genere. Un elenco di termini proibiti, uno strumento pratico per parlare di violenza sulle donne in modo appropriato, pensato per aiutare i giornalisti, e poi anche l’opinione pubblica, ad affrontare il tema in maniera opportuna trovando le parole giuste.
“Raptus tra le parole più sbagliate e purtroppo più comuni – sostiene dice Danila Pescina, psicoterapeuta e criminologa – nessun femminicidio avviene all’improvviso ma è l’esito di un’escalation di violenza che non è stata intercettata o fermata in tempo. Una violenza iniziata molto tempo prima: magari prima solo psicologica, pericolosissima perché inizia a far vacillare lo status psichico ed emotivo della vittima, poi il primo schiaffo, fino ad arrivare agli agghiaccianti casi di cronaca di cui sentiamo parlare ormai troppo spesso. Altrettanto inaccettabile anche la parola follia, perché regala un alibi emotivo al carnefice e fa pensare che chi compie questi delitti sia una persona con disturbi psichici, ma ormai sappiamo bene che non è sempre così. È certamente importante parlare della dipendenza affettiva che sta alla base di molte di queste relazioni violente, invece dell’uso improprio del termine amore malato.
“La lettura morbosa dei fatti finisce per minimizzare un reato che in Italia colpisce 7 milioni di donne – sottolinea Vittoria Doretti, direttora UOC Promozione ed Etica della Salute e Responsabile della Rete Regionale Codice Rosa della Regione Toscana – I dettagli scabrosi che non aggiungono nulla alla cronaca spostano l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vittima, anziché sulla ferocia dell’aggressore. Dobbiamo evitare di accendere i riflettori in modo distorto: soffermarsi su come era vestita la vittima di una violenza o descrivere in dettaglio le ferite subite è come sottoporre le donne a una seconda violenza. Descrivere ciò che la donna ha fatto o non fatto, detto o non detto sulla base di dettagli scabrosi o violenti, può trasformare l’opinione pubblica in un tribunale in cui le donne si sentono giudicate e violate. Le parole vanno soppesate con estrema delicatezza, pur nel rispetto del diritto di cronaca, perché la lettura inappropriata dei fatti può avere conseguenze serie sulle vittime – continua Doretti – Riportare il racconto di parenti, amici, vicini di casa, che lui era un ragazzo d’oro o un bravo ragazzo è come sminuire la versione della vittima, come dubitare che sia possibile quanto è successo; dire che lei se l’è cercata significa colpevolizzare la donna e dare un perché a gesti che non possono essere in alcun modo giustificati, ledendo la libertà di ogni donna di vivere a suo modo”.
Altrettanto scorretto – secondo le esperte – dire che lei lo tradiva perchè il tradimento non può essere in alcun modo letto come un alibi, considerando la donna un oggetto di proprietà maschile. E’ una frase da bollino rosso anche chiedersi “perché lei non lo ha lasciato?”: le dinamiche dei rapporti non possono mai essere semplificate e, spesso, nascondono ricatti, sudditanza psicologica, difficoltà economiche che non consentono di andarsene soprattutto se ci sono figli di mezzo.
In Italia lo scorso anno i casi di femminicidio sono stati 69. Dall’inizio del 2019 sono già state uccise 5 donne e ben 7 milioni, pur non avendo perso la vita, sono state picchiate, maltrattate o violentate.
Dal 2000 a oggi 3.100 sono state le vittime: 108 in Toscana dal 2006 al 2017 e oltre 22.000 donne, in media 6 al giorno, si sono rivolte ai centri Antiviolenza secondo i dati dell’Osservatorio Sociale Regionale. Fatti che, raccontati con le parole sbagliate, possono diventare ancora più drammatici per le vittime o per i loro figli, provocando danni irreversibili.
Trovare le parole giuste può fare, allora, la differenza e la responsabilità dei media per la formazione, oltre che per l’informazione dei cittadini, è enorme: ogni singola parola, ogni singola immagine può dare la voce a migliaia di donne o spegnerla.
Ecco perché corsi di formazione per giornalisti sono diventati imprescindibili per combattere pregiudizi e stereotipi fornendo fonti, dati, conoscenze medico-scientifiche, psicologiche, normative e soprattutto linguaggi per capire fino in fondo il fenomeno della violenza sulle donne. 700 finora i giornalisti “già andati a lezione” – ci dicono dalla Menarini – nell’ambito proprio del progetto Stop alla violenza di genere, formare per fermare, durante gli incontri svolti a Roma, Napoli, Milano, Venezia, Bari e Torino. Tappa più recente lunedì 4 marzo scorso a Firenze, con l’obiettivo di arrivare presto fino a Palermo per coprire l’intero Paese.
“L’impegno di Menarini – sottolinea Valeria Speroni Cardi, Direttore Comunicazione del Gruppo –prosegue anche con il progetto per la lotta all’abuso sui minori, già avviato tre anni fa, che da aprile ripartirà da Roma su tutto il territorio nazionale per creare una rete di almeno 15mila pediatri ‘salva-bimbi’ ”.
L’auspicio è che corsi di questo tipo si moltiplichino, che le coscienze si formino, che i giornalisti siano sempre consapevoli del loro fondamentale ruolo sociale e che abbiano sempre gli strumenti per esercitarlo al meglio.
Morena Mancinelli
Senza Bavaglio fa proprio il decalogo per raccontare in maniera corretta la violenza di genere, con la speranza che tutti i colleghi lo adottino e ne rispettino i principi e lo spirito. A questo scopo, lo pubblichiamo integralmente di seguito.
IL DECALOGO DELLE PAROLE E DEGLI STEREOTIPI SBAGLIATI
QUANDO SI PARLA DI VIOLENZA SULLE DONNE
RAPTUS: nessun femminicidio avviene mai all’improvviso, è sempre l’esito di un’escalation di violenza che non è stata intercettata o fermata in tempo.
FOLLIA: usare questa parola è un modo per regalare un alibi emotivo al carnefice e fa pensare che chi compie questi delitti sia una persona con disturbi psichici.
AMORE MALATO: questa espressione è un ossimoro, l’amore è il contrario della violenza, che non può mai essere descritta come l’esito di una passione amorosa.
DESCRIVERE COME ERA VESTITA LA VITTIMA: lascia passare l’idea che ci sia una giustificazione possibile per gli atti violenti, umiliando la donna e la sua libertà di scelta.
DESCRIVERE IN DETTAGLIO LE FERITE SUBITE: è un atteggiamento morboso e voyeuristico che provoca soltanto dolore nella vittima, senza aggiungere nulla a ciò che l’opinione pubblica può conoscere dei fatti.
ERA UN BRAVO RAGAZZO (UN PADRE PREMUROSO, UN UOMO BUONO ETC): è come sminuire la versione dei fatti della vittima, come dubitare che sia possibile quanto è successo.
SE L’E’ CERCATA: significa colpevolizzare la donna e dare un perché a gesti che non possono essere in alcun modo giustificati.
LEI LO TRADIVA: è un dettaglio privato che crea un alibi che colpevolizza la donna.
PERCHE’ LEI NON LO HA LASCIATO? Andarsene per le donne non è mai semplice e i motivi possono andare dal ricatto economico, alla presenza dei figli, alla paura di essere giudicate dall’esterno.
DARE PIU’ SPAZIO AI DELITTI CHE COINVOLGONO STRANIERI: distorce dalla realtà che vede come autori delle violenze, mariti, compagni, o familiari stretti in oltre il 70% dei casi.
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