Licenziamenti e cassa integrazione alla Condè Nast con il sindacato che sta a guardare

Senza Bavaglio
Milano, 19 febbraio 2018

Condé Nast sta cercando un suo futuro lontano dall’editoria. Del resto, il gruppo Usa è in vendita da tempo e i nomi di potenziali compratori che circolano Oltreoceano son quelli di Google (motore di ricerca che nulla ha a che fare col giornalismo, l’editoria e l’informazione) e Amazon (il big dell’e-commerce il cui fondatore, Jeff Bezos, si è per lo meno comprato il Washington Post, dimostrando un interesse al settore).

Ecco perché da tempo anche in Italia assistiamo a esempi di new business lontani anni luce dalla carta stampata e dall’inchiostro. Tempo addietro venne presentato in pompa magna, in uno store d’arredamento in via Solferino, il primo progetto per il mercato italiano di branded content: se ne sono perse le tracce in men che non si dica. Nel frattempo, la casa editrice italiana continuava a macinare utile e a distribuire dividendi alla casa-madre americana.

Ma adesso, la società guidata da Fedele Usai – lo storico capo-azienda, Giampaolo Grandi, si è ritagliato il ruolo di presidente ma ha ancora una certa influenza sul business -, ha deciso di sterzare seriamente sul mondo digitale, mischiandolo sempre più spesso con la pubblicità e il marketing.

Dapprima il lancio, in collaborazione con la Sda Bocconi, della Social Academy per formare veri e propri influencer che nulla hanno a che fare con il giornalismo, ma che sono persone assai apprezzate sui social, a partire da Instagram o Twitter, che pubblicizzano a volte in maniera anche esplicita (l’Antitrust ha avviato una procedura e sta indagando sul ruolo, l’influenza e gli aspetti di business di queste figure digitali), prodotti, novità e marchi. Facendo di fatto pubblicità occulta. Nulla a che vedere con il giornalismo, anche quello digitale, 2.0.

Non contenta, adesso la Condé Nast ha presentato in pompa magna il progetto Lisa, un nuovo brand editoriale (siamo sicuri che sia registrato in qualche tribunale o che sia diretto e/o gestito da un giornalista?) “social-only” (l’italiano è ovviamente bandito perché non fa figo) che punta a colpire nel segno: i giovani. Quel target commerciale che difficilmente oramai viene raggiunto dalla stampa tradizionale.

In particolare, la società ha spiegato che intende puntare su una audience digitale di oltre 35 milioni di utenti dei quali 14 milioni tra fan e follower di tutte le property digitali sulle varie piattaforme social. Ovviamente viene sviluppato su Instagram (16 milioni di utenti attivi in Italia) e su Facebook (oltre 20 milioni di profili attivi) perché come spiega la società “Lisa propone una copertura nella sfera dell’intrattenimento dedicato alle millennial e vuol far leva sulla loro attitudine alla self expression, al senso di community e al desiderio di share&connect‎”. Che vuol dire nessuno lo sa. La spiegazione tutta, di fatto, in lingua inglese, non lo fa capire. Forse è questo il vero intento: confondere le acque.

Anche perché Lisa non è altro che l’acronimo di Love Inspire Share Advise. Che vuole dire? E chi lo sa? Sicuramente la parola “giornalismo”, anche nella sua accezione inglese o anglofona, non esiste affatto. Sia mai che ci sia da scrivere un articolo vero e serio…

“Lisa nasce per celebrare la generazione più interconnessa, colta ed espressiva di sempre, là dove questa generazione si incontra e interagisce: i social media”, dice Marco Formento, digital central director Condé Nast Italia. “Un‎ progetto che ci rende estremamente orgogliosi perché rappresenta una fondamentale evoluzione della nostra proposta editoriale, in continuità con la nostra brand legacy ma con un taglio decisamente innovativo”.

Lisa è l’incarnazione di un nuovo modello femminile e prende nome dall’acronimo di Love Inspire Share Advise, perchè ” il mondo delle passioni giovanili è guidato, ancora più che dai singoli argomenti, da specifiche modalità di interazione emozionale” spiegano ancora in Condé Nast. “E proprio per questo i contenuti hanno una forte componente visual, grazie all’utilizzo di social cards, gif animate, video e Instagram Stories, che racconteranno i nuovi trend, le opinioni e le live experiences in cui Condé Nast coinvolgerà gli utenti”.

Tradotto? E chi lo sa? Nessuno lo spiega. Potrebbe essere l’ennesimo tentativo di raccogliere pubblicità a basso costo, quello dei giornalisti e dipendenti, ovviamente. Sì perché nel frattempo, Condé Nast che fa? Taglia, licenzia, chiude e incentiva allo scivolo, arrivando a offrire fino a 40-quaranta-40 mensilità ai colleghi che preferiscono prendere la porta e darsela a gambe in un gruppo che nulla fa per tutelare la qualità dell’informazione.

Come ha più volte sottolineato Italia Oggi sono state chiuse in questi mesi le testate L’Uomo Vogue, Vogue Bambini, Vogue Sposa e Vogue Gioielli. Mentre al contempo si forzano i licenziamenti o il ricorso agli ammortizzatori sociali, leggasi cassa integrazione dopo che sono stati congelati i tagli netti di tre risorse redazionali. Con il rischio che i casi si possano moltiplicare vista la debole risposta di un sindacato che sì, organizza assemblee, sit-in, convegni e prova a tutelare come meglio può i colleghi e la categoria, ma che poi non ottiene quasi nulla. Visto che ora si rincorrono insistenti voci di nuove chiusure e di conseguenti tagli al personale.

Il tutto, e nessuno si ribella o alza un dito, a fronte di rinnovi periodici ai vertici delle testate che resistono (chissà per quanto?).

Il caso più emblematico sul quale ci sarebbe da interrogarsi è quello di Vanity Fair. Un anno fa, era il mese di marzo, la Condé Nast ha chiamato Daniela Hamaui, classe 1954, quindi già bella che pensionata, a prendere il posto di Luca Dini, di una decina d’anni più giovane.

Ordunque, la 64enne direttora che ha fatto? Le sue prime mosse, legittime per carità, sono state quelle di rafforzare il vertice del settimanale. Ma senza pescare dal bacino di oltre 100 giornalisti del gruppo. Bensì, rivolgendosi al mercato: così, nell’arco di pochi mesi, sono arrivati il nuovo condirettore Cristina Lucchini (mantiene la direzione di Glamour, quindi possiamo dire che è una promozione interna), le new entry: Serena Danna, redattrice de La Lattura del Corriere della Sera, Alan Prada e Malcom Pagani, ex Fatto Quotidiano e Messaggero.

E il sindacato che ha fatto? Non ha protestato, non ha sollevato questioni. Perché? La risposta non esiste. Resta il mistero. Ma si sa, perché lo scrisse già sempre Italia Oggi, la Condé Nasta voleva dare una drastica sforbiciata all’organico giornalistico, tagliandones il 35% del totale: a fine 2016 erano 140 i colleghi, scesi però nel frattempo a 120 e oggi sono ancora meno. Come stimolare questo processo: come detto, con incentivi eccezionali, mai visti prima. Le famose 40-quaranta-40 mensilità nette, poi scese a 38, di buonscita. Tanto poi dovrebbero arrivare blogger e influncer. Ovviamente non la più famosa di tutte, Chiara Ferragni, che costa come almeno 10 giornalisti viste le milionate di fan che, beata (e brava lei), si ritrova sui social.

E che dire del silenzio assordante del sindacato in merito alla voce, sempre più insistente, di un trasferimento dell’area digitale e internet in Svizzera, sul modello dell’altro editore americano, Hearst? Nessuno fa o dice nulla. Anche perché la vicenda Hearst è ancora tutta da risolvere visto che a Chiasso o a Lugano la legislazione è differente e ancora oggi i legali della Alg non sanno bene quali pesci pigliare.

Senza Bavaglio

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