Speciale per Senza Bavaglio
Sabina Mantovani e Ugo Minneci
Milano, 21 aprile 2017
La sentenza n. 22662/2016 offre un caso di scuola in materia di “controlli difensivi” da parte datoriale, ampliando appunto l’ambito di controllo del datore di lavoro ed autorizzando i controlli difensivi a tutela del patrimonio aziendale oltre i limiti dello Statuto dei Lavoratori.
Con tale sentenza, la Cassazione ha cassato con rinvio una sentenza della Corte d’Appello di Torino, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice alla quale era stato contestato di avere sottratto una busta contenente denaro dalla cassaforte aziendale. La condotta era ricavabile da una filmato prodotto da una telecamera preposta al controllo della cassaforte.
La Corte territoriale aveva fondato la decisione sul rilievo che, l’istallazione dell’impianto audiovisivo, pur astrattamente legittima ai sensi dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, avrebbe richiesto il previo accordo con le rappresentanze aziendali.
Per maggior chiarezza riproduciamo l’art. 4 della legge 300/1970, che stabiliva che gli impianti audiovisivi e degli altri strumenti di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori potevano essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e potevano essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali.
Nel tempo la giurisprudenza ha piegato tale articolo, sino quasi a svilirne la portata, nel tentativo di trovare un difficile bilanciamento tra le contrapposte esigenze dei lavoratori e di parte datoriale.
La torsione (e lo sbilanciamento) è evidente in Cass. Civ. 4746/2002 che stabilisce che i controlli difensivi da parte datoriale sono sottratti alle condizioni di tutela previsti dall’art. 4 e quindi sempre ammessi, poiché giustificati dal fine di tutela del patrimonio aziendale rispetto agli illeciti civili e penali dei dipendenti.
La funzione interpretativa sino alla distorsione fatta dalla giurisprudenza appare evidente: il legislatore del 1970 aveva l’intenzione di mantenere la vigilanza sul lavoro in una dimensione umana, cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che potessero rendere la vigilanza stessa continua e rigida, sino alla possibile eliminazione di ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro.
Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, peraltro con una sentenza del 2016 aveva avallato l’interpretazione giurisprudenziale italiana, ritenendo maggiormente meritevole di tutela il controllo di parte datoriale rispetto al diritto alla riservatezza del lavoratore. Nel caso esaminato, la Corte pur ammettendo la sussistenza del diritto alla riservatezza di mail ed altre forme di corrispondenza anche sul luogo di lavoro, riconosceva il diritto del datore di lavoro a monitorare l’account aziendale del dipendente. E questo gravando il datore di lavoro unicamente dell’onere di informare preventivamente i lavoratori in relazione ad eventuali forme di controllo dell’attività lavorativa svolta.
La legittimazione a posteriori dei controlli datoriali, non ha avuto però l’avallo del Garante della Privacy che si è espresso in più occasioni ribadendo la necessarietà delle garanzie dei cui all’art. 4 per evitare intollerabili controlli invasivi che avrebbero potuto minare la serenità del lavoratore.
Con l’entrata in vigore del Jobs act è stata ribadita, con la riformulazione dell’art. 4, l’imprescindibilità di forme di garanzia della dignità e della riservatezza dei lavoratori.
Sabina Mantovani
Ugo Minneci
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