Il passaggio dell’Inpgi all’Inps: da male oscuro a vittoria

Senza Bavaglio
Milano, 1° novembre 2021

L’annuncio della confluenza dell’Inpgi nell’orbita Inps, un passaggio diventato inevitabile nonostante la volontà della presidenza di prolungare l’agonia (per noi, e i faraonici compensi per loro), cancellerà una delle particolarità che caratterizzano il nostro lavoro. Una particolarità che più che altro era un’anomalia, visto che nessuna delle casse dei professionisti ha le caratteristiche della nostra.

L’Inpgi, infatti, è a tutti gli effetti, un sostituto dell’Inps, poiché si occupa di raccogliere i contributi ed erogare le pensioni di tutti i giornalisti. Con la gestione principale e quella separata svolge le funzioni di primo pilastro, mentre gli enti di geometri, ingegneri e di altri Ordini gestiscono esclusivamente i liberi professionisti. In caso di assunzione in un’azienda, la loro posizione passa direttamente all’Inps.

Sperare di poter continuare sulla vecchia strada sarebbe stato molto più di una cieca utopia, erano tutti gli indicatori a segnalare che la fine dell’Inpgi era vicina, eppure le dimostrazioni di solidarietà e incoraggiamento a Marina Macelloni e soci si sprecavano.

L’ultima barzelletta con la quale hanno cercato di prenderci in giro, è stata la trovata di coinvolgere i comunicatori. In questo modo sarebbero entrati nelle casse circa 20 milioni l’anno; peccato che solo nel 2020 il buco nel bilancio avesse raggiunto quota 240, e fosse in costante peggioramento.

Gestire un settore complesso come quello della previdenza obbligatoria non è semplice. Con i sistemi pubblici a ripartizione, quelli usati nella maggior parte dei Paesi evoluti, i contributi dei lavoratori non sono accantonati, ma immediatamente trasferiti per pagare le pensioni attuali.

Si tratta, è evidente, di un patto tra generazioni, e il sistema regge solo se è garantito il necessario equilibrio. Ma il punto è proprio qui, l’equilibrio si è rotto da tempo, per problemi legati alla demografia e al mercato del lavoro. In passato le rendite di ogni pensionato erano “a carico” di più lavoratori in attività, mentre nel 2016 il numero si è ridotto a soli tre attivi (è la media nazionale globale, non riferita ai giornalisti) per ogni persona a riposo.

Nelle ultime stagioni la pericolosa tendenza verso la parità ha subito una drastica accelerazione, e l’aspetto più agghiacciante è che il percorso degli editori è stato agevolato dall’Inpgi e dal sindacato.

I grandi editori, qualcuno più di altri, hanno avuto la strada spianata a prepensionamenti a ripetizione i cui costi non sono andati a carico dello Stato, ma quasi integralmente pagati con le riserve. Senza dimenticare che molti dei giornalisti prepensionati erano i più anziani, con stipendi di ottimo livello che si sono tradotti in pensioni assolutamente non sostenibili con i contributi dei pochi neoassunti con il minimo contrattuale.

Eppure, in via Nizza nessuno si è mai preoccupato più di tanto. Sarebbe stato il momento di vigilare sulle irregolarità che dilagavano nelle redazioni, invece pare che la priorità sia stata quella di garantire stipendi adeguati a presidente e direttore generale, che nel 2020 hanno incassato rispettivamente 235.752 e 231.796 euro. Se si considera che gli iscritti alle due gestioni sono circa 80.900, vuol dire che ognuno ha contribuito con quasi 3 euro ai compensi delle due dirigenti; rimane da capire perché Pasquale Tridico, presidente Inps che gestisce oltre 25 milioni di lavoratori si debba accontentare di 150.000 euro l’anno.

Per lunghi mesi hanno cercato di convincerci che l’Inpgi andava salvato a ogni costo, per farlo hanno organizzato manifestazioni davanti a Montecitorio. Sostenevano che senza il nostro ente di previdenza avremmo perso la nostra indipendenza.

Senza Bavaglio lanciava invece un altro messaggio, molto più concreto “salviamo le pensioni”, con una garanzia pubblica, l’unica in grado di rimediare ai danni derivanti da una gestione a dir poco scellerata.

Solo pochi mesi fa, a giugno, Marina Macelloni tuonava “Inpgi si salva con l’allargamento della platea dei contribuenti”, mentre qualche tempo prima il segretario Fnsi, Raffaele Lorusso, sosteneva che “il rilancio non può prescindere dal lavoro regolare, dal contrasto al precariato e dalla previdenza”.

Parole che stridono con la dura realtà, perché i fatti confermano che il contrasto al lavoro nero è solo nei proclami, al punto che risulta difficile credere che l’auspicato inglobamento dei comunicatori potesse assicurare i numeri annunciati.

È sufficiente limitarsi a osservare come l’Inpgi ha gestito la lunga stagione delle rottamazioni. A fronte delle massicce uscite avrebbe dovuto vigilare sul lavoro di ogni redazione, mentre al contrario è risultato più semplice (e si spera nulla di più) guardare da un’altra parte quando le peggiori porcherie erano messe in atto con il tacito benestare dei CdR.

Si è visto di tutto: collaboratori ufficialmente saltuari, invece in redazione con postazioni fisse per svolgere il lavoro dei redattori in solidarietà, accettazione di esuberi inesistenti, cococo impegnati a svolgere mansioni di caporedattore e soprattutto pensionati rientrati il giorno dopo, sulla stessa scrivania e con contratti di collaborazione intestati a mogli e suocere, per aggirare l’ostacolo del cumulo.

Tutto ciò è avvenuto, e sarà sempre più attuale, visto che l’attività di vigilanza latita. Non sono bastate denunce e segnalazioni dettagliate per ripristinare la legalità, anche perché nei rari casi in cui gli ispettori si sono mossi il loro arrivo nelle redazioni è stato annunciato con largo preavviso.

Segno tangibile che qualcosa, anzi molto, non funzionava correttamente, che l’interesse personale e quello delle aziende venisse prima di quello dei giornalisti. Liberandosi, almeno sulla carta, di giornalisti entrati negli anni Ottanta, con ricchi stipendi sostenuti da contratti integrativi e sostanziosi scatti di anzianità, gli editori hanno ottenuto il doppio risultato di scaricare tutti i costi sull’ente e di tagliare una volta per tutte il pagamento di pesanti contributi. A tutto ciò non è corrisposto un adeguato ricambio generazionale che avrebbe dovuto rappresentare la necessaria condizione. Al massimo i rincalzi sono stati stagisti sottopagati. Così il sistema è entrato in crisi e pensare di poter porre rimedio inglobando i comunicatori non era che la soluzione proposta da uno stolto o da chi è in malafede. Non serve una laurea alla Bocconi per capire che le uscite avrebbero di gran lunga superato le entrate. Per usare un esempio attuale, sarebbe come acquistare una Tesla per salvare il pianeta, usarla, e pensare di ricaricarla con la rete di casa: il risultato non potrà che essere quello di restare a secco in mezzo alla strada.

Vendere come un successo il passaggio all’Inps conservando i diritti di chi ha versato centinaia di migliaia di euro appare oggi l’arrogante giustificazione di chi non ha fatto altro che accelerare la corsa verso un futuro che si annunciava inevitabile. L’approccio corretto, dettato dall’onestà intellettuale, sarebbe stato quello di annunciare: “ci è andata meglio del previsto, perché si sono resi conto che le colpe del dissesto erano soprattutto nostre, non di chi ha versato i contributi”. Invece è stata coniata una nuova chiave di lettura, che consentirà una rivoluzionaria interpretazione dei grandi eventi del passato. Così la Waterloo di Napoleone, la nostra campagna di Russia e le sempre nostre drammatiche El Alamein e Caporetto potranno diventare grandi vittorie.

A questo punto non resta che sperare due cose: che sia avviata un’accurata indagine sulla gestione Macelloni e che chi ha sperperato in compensi spropositati i fondi della gestione principale resti distante da quelli di Inpgi 2. Che fortunatamente hanno un andamento positivo, semplicemente per il fatto che non rientrano nei sistemi pubblici a ripartizione, ma restano legati alle singole posizioni degli iscritti. Anche perché i freelance, praticamente abbandonati al loro destino e senza uno straccio di equo compenso non sono centro in grado di mettere in crisi nessun ente previdenziale con le loro pensioni. Senza dimenticare che in Italia il confine tra freelance e disoccupato è talmente sottile da far apparire sinonimi i due termini. Molti dei lavoratori autonomi degli ultimi anni non sono infatti i giovanissimi, ma gli ultrasessantenni licenziati pochi mesi prima di raggiungere la pensione con i vecchi criteri. Che dopo avere esaurito il sussidio cercano di raggiungere i 67 anni contendendo ai ragazzini collaborazioni da 25 euro lordi. E le lascerebbero volentieri a loro, se solo potessero assicurarsi una rendita dopo tanti anni di lavoro. Ma tra le tante anomalie dell’Inpgi c’è anche questa: fino al 31 dicembre quota 100 è accessibile pressoché a chiunque, tranne che ai giornalisti.

Senza Bavaglio
twitter #sbavaglio
reportersenzabavaglio@gmail.com

Condividi questo articolo