Come si dà, o come si dovrebbe dare, la notizia di un suicidio

Eugenio Gallavotti
Milano, 17 ottobre 2019

Conosciamo i suggerimenti rivolti ai giornalisti dall’Organizzazione mondiale della sanità: astenersi da un linguaggio sensazionalistico o “normalizzante”, ovvero non presentare il suicidio come un modo ragionevole per risolvere i problemi; evitare il collocamento della notizia in primissimo piano e la sua riproposizione immotivata; fornire informazioni su centri di prevenzione e aiuto…

Conosciamo anche il Testo unico dei doveri del giornalista: “Nel caso di suicidi di minorenni, fermo restando il diritto di cronaca, occorre non enfatizzare quei particolari che possano provocare effetti di suggestione o emulazione”.

 

Se possibile, con il corso di formazione in programma nelle prossime settimane, andremo ancora più in profondità, come ho cercato di fare nel pamphlet “Tutto quello che avremmo voluto sapere sul SUICIDIO” (su Amazon.it, 4,99 euro) scritto con lo psichiatra Mario Savino, già allievo a Pisa di Giovanni B. Cassano. All’incontro parteciperà anche Giuseppe Fàzzari, esperto di attrezzature per la stimolazione cerebrale, per affrontare altresì la questione del gap tecnologico che tuttora divide la psichiatria italiana da quella di numerosissimi Paesi occidentali. Solo un dato: negli Stati Uniti il 21 per cento dei trattamenti contro il rischio suicidario avviene attraverso dispositivi elettronici; in Italia siamo appena allo 0,06 per cento… Colpa di alcuni pregiudizi diffusi anche nelle nostre redazioni?

Nelle cronache – e nei titoli – che raccontano un suicidio si legge spesso ”mistero”, ”gesto incomprensibile”, anche sui giornali più blasonati. Persone “brillanti” e “iperattive” che si ammazzano tra lo stupore generale. Facciamo luce: nella stragrande maggioranza dei casi, non c’è alcun mistero. Il suicidio è semplicemente l’epilogo più drammatico di una malattia assai diffusa, il disturbo depressivo. Anzi, di una determinata tipologia depressiva, definita “stato misto”, ovvero quando “il male di vivere” è accompagnato da agitazione/irrequietezza. Una malattia a volte rimossa/non riconosciuta persino da chi ne soffre.

Cosa aggiungerebbe il professor Savino alle linee guida dell’Oms? Che per esempio va sicuramente evitata la diffusione di certe tecniche utilizzate dai giovani, dai ragazzini che, negli ultimi tempi, rischiano la vita “divertendosi” a sfiorare il limite con la morte, commettendo “suicidi parziali”. Purtroppo la Rete è prodiga di queste “istruzioni”.

Inoltre, c’è differenza tra il suicidio di personaggi famosi, dove può scattare l’emulazione, e la sfera privata. Qui l’idea che parlare di suicidio sia “contagioso”, che indagare sulle volontà di una vittima significhi istigare chi già soffre di una patologia psichiatrica, è infondata. Anzi, va oltre Savino, alcuni studi dimostrano che eventi traumatizzanti come il suicidio di un conoscente riducono il rischio nel soggetto che apprende la notizia.

Il contrario di quello che abbiamo sempre pensato. La notizia di un suicidio, in quest’ambito, diventa quasi consolatoria/ammonitrice. Può essere il caso dei giornali/pagine/siti locali, che hanno un rapporto più “caldo” con i lettori. Si inizia a riflettere: “Peccato, poteva risolvere i suoi problemi in tanti altri modi e ora non possiamo fare più niente…”. È uno shock che consente una “pausa” a chi – eventualmente – stesse progettando un suicidio. Perciò, in quest’ottica, non bisogna avere troppe cautele con la persona depressa. Parlare chiaramente è importante, anche facendo riferimento a un conoscente che non ce l’ha fatta. Chiedere se ci sono pensieri suicidari e capire come mai, giova a chi è in difficoltà: potersi esprimere sinceramente, profondamente, è il primo passo per voler guarire, per arrivare a chiedere aiuto, cosa fondamentale e non facile.

Eugenio Gallavotti
Giornalista, ex vice direttore di Elle, docente Iulm

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