Tre anni di Renzi. E sulla Rai calò la notte dei flop

da Il Fatto Quotidiano
Carlo Tecce
Roma, 10 maggio 2018

Quando scriviamo di Rai, scriviamo di una televisione pubblica che non esiste più. Non esiste perché nel triennio renziano ormai in scadenza, assalita dai vindici del Nazareno, ha calpestato se stessa, la propria identità, la propria funzione. Viale Mazzini si è sottratta al ruolo di fucina delle notizie, dei dibattiti politici, dell’ informazione puntuale seppur a volte troppo istituzionale, se non imbalsamata, troppo lottizzata, troppo schematica.

Quella Rai, però, era viva. Con le sue contraddizioni, i suoi limiti, i suoi editti. Oggi il renzismo consegna un’ azienda malandata, non competitiva nel mercato globale, mai capace di cogliere occasioni industriali (vedi l’ alleanza con Sky Italia lasciata a Mediaset), più debole in prima serata con la perdita di oltre un milione di spettatori (sul triennio precedente), più povera senza l’ apporto creativo e di sinistra di Rai3, spappolata, insignificante, aggredita con ferocia luddista dagli ascari di Matteo Renzi .

Il Cda Rai di matrice renziana ha accolto e pugnalato supinamente – escluso il controllo intransigente e non banale di Carlo Freccero e Paolo Messa , che si è dimesso – il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto e poi, distratto, ha scortato verso la fine Mario Orfeo . Il testamento ancora non è scritto, ma il lascito è scarno: -1,38 per cento di share nel giorno medio e -1,12 di sera per i canali di Viale Mazzini rispetto al mandato tecnico di Luigi Gubitosi.

Per capire com’è successo ripartiamo da un giorno al solito afoso di agosto del 2015, dalla sala degli Arazzi di Viale Mazzini, dall’esordio con zainetto, allo sguardo impenetrabile, per alcuni vagolante, ai vocaboli astrusi e perciò di per sé innovativi di Antonio Campo Dall’Orto, ex La7 e Mtv, consigliere di Poste, oratore alle Leopolde,  l’unico del giro di Firenze che sappia dirigere una società televisiva.

Il ripudio di Cdo e l’odio violento contro Rai3

Campo Dall’ Orto (Cdo) sbarca in Viale Mazzini con un equivoco: Renzi non l’ha scelto perché lo considera bravo, ma perché lo considera affidabile e poi, se bravo, ancora meglio. Al fianco di uno spaesato Cdo, il patto fra Maria Elena Boschi e Gianni Letta – per conto del premier Renzi e di Silvio Berlusconi – sancisce la presidenza di Monica Maggioni. Renzi ha un’ossessione che Campo Dall’ Orto è costretto ad assecondare: distruggere Rai3, estirpare la sinistra passatista, spalancare le polverose finestre per infondere lo spirito del cambiamento.

Cadono Ballarò di Giovanni Floris, il Tg3 di Bianca Berlinguer, Massimo Giannini finché la rete – affidata a Daria Bignardi – s’ avvita in una spirale di clamorosi flop. Il risultato è che il martedì di Rai3 è crollato dall’11 per cento di share con 3 milioni di italiani sintonizzati (periodo 2012/15) al 4,16 per cento e la concorrenza di Floris su La7 per Cartabianca di Berlinguer. Campo Dall’Orto ha governato con diffidenza, ignorando i metodi romani – le riunioni di inizio settimana si tenevano a Milano – i nevrotici bisogni dei politici di riferimento. Ha costruito attorno a sé un muro di collaboratori più o meno preparati, a volte ha sfidato le regole e l’Autorità anti-corruzione come per l’ assunzione del leggendario Genséric Cantournet a responsabile della sicurezza, selezionato da una società di cacciatori di teste a lui non ostile. Quella del padre.

Ma Campo Dall’Orto ha riesumato pure il progetto – già in fase avanzata con Gubitosi – di trasformare l’ informazione di Viale Mazzini con un piano editoriale all’altezza di ciò che è accaduto negli ultimi trent’anni, quando ciascun canale e ciascun telegiornale furono distribuiti secondo logiche spartitorie garantendo il pluralismo con la moltiplicazioni di poltrone, microfoni e palinsesti. Così il direttore generale, già braccato dai parlamentari dem e inviso al sottosegretario Antonello Giacomelli, ha introdotto in Viale Mazzini una figura aliena: un giornalista vero, un direttore di razza, libero da qualsiasi legame politico, Carlo Verdelli.

Campo Dall’ Orto ha sacrificato Rai3 e alterato Rai2 (talk show banditi, e via il Virus di Nicola Porro) pur di preservare il lavoro di Verdelli. Il rapporto tossico con Renzi l’ha consumato. La parabola politica del Nazareno l’ ha condannato. Il fiorentino aveva organizzato Viale Mazzini per alimentare consenso, diminuire la quantità e la qualità dell’informazione per aggirare le polemiche, sfruttare la potenza di un gruppo dal 40 per cento di share per segnare la differenza durante le consultazioni elettorali. Questa strategia si è sublimata in un programma, Politics. Era l’ autunno che portava al referendum costituzionale di dicembre del 2016. Bignardi ha stravolto le abitudini ventennali del pubblico del martedì di Rai3 con l’ inspiegabile avvicendamento – inspiegabile se non per ragioni del Nazareno – fra Massimo Giannini e Gianluca Semprini . Politics s’è estinto in pochi mesi col 3,5 per cento di share, con un’ agonia simile – di certo più appariscente – di quella di Amore Criminale e di altre pessime intuizioni di Bignardi. Il Renzi ferito, in cerca di colpevoli per la batosta al referendum, ha licenziato Campo Dall’Orto.

Non prima di licenziare il futuro da Viale Mazzini con l’ affossamento del piano editoriale di Verdelli. In silenzio, Cdo se n’ è andato nel maggio 2017, dopo vari tentativi di resistenza. Con motivazioni personali, salutano anche Bignardi e Ilaria Dallatana (Rai2), male il giovane Andrea Fabiano a Rai 1. La fondatrice di Magnolia, abituata ai costosi format internazionali, ha confuso Rai 2 con Italia 1 mescolando buone e cattive idee. Per esempio, Nemo (4,3) ha funzionato discretamente e ha rinfrescato l’offerta giornalistica. Il passaggio di consegne fra Cdo e Orfeo, non sgradito al centrodestra, ha rallentato l’investimento su di una protagonista assoluta della televisione pubblica, Milena Gabanelli. Una pausa che si rivelerà fatale.

Il cavallo morente della sede Rai in Viale Mazzini a Roma

L’arrivo del traghettatore che sbaglia su Gabanelli

In un clima di larghe intese, il direttore del Tg1 Orfeo prende il comando di Viale Mazzini. È un uomo accorto, piace al renzusconi, non piace ai Cinque Stelle. Non tocca quello che funziona e aggiunge quello che non può funzionare, non da gennaio, leggi la trasmissione in quota centrodestra di Rai2, Kronos. Con Orfeo i microfoni schierati davanti al politico di turno sono decine. È un ritorno all’antico. Le vecchie tribù si ricompongono, il numero dei vicedirettori – date un’ occhiata agli organigrammi di Radio Rai, sei vice al Gr – lievita. Orfeo recupera Angelo Teodoli e lo promuove a Rai 1, fa traslocare Fabiano a Rai 2, concede un’ opportunità a Stefano Coletta a Rai 3, non rinuncia alla vigilanza del Tg1 con la nomina del fidato Andrea Montanari e spende cifre folli per Fabio Fazio. Il direttore generale, marcato dall’ambiziosa Maggioni, però, fallisce subito con l’ addio di Gabanelli, un’ icona, usata, dimenticata e infilata in una stanza vuota con la promessa tradita di gestire la struttura digitale del servizio pubblico. Anche se Renzi non è più a Palazzo Chigi, Viale Mazzini non può permettersi l’ indipendenza professionale di Gabanelli.

Lo stato di salute di una tv rassegnata

I danni del renzismo su Viale Mazzini sono lampanti, ma non ancora circoscritti. Il canone in bolletta – ridotto a novanta euro – dà una stabilità ai ricavi dagli abbonati. Il prelievo forzoso di 150 milioni di euro del 2014 più altri brandelli di canone previsti negli anni dall’allora governo Renzi dimostrano l’ interesse strumentale nei confronti della televisione pubblica. Il tetto agli stipendi di 240.000 euro, applicato con le distinzioni d’uopo (il caso di Bruno Vespa , per esempio), pone Viale Mazzini fuori dal perimetro di una società dal fatturato miliardario ambita dai manager di livello. E la scellerata riforma renziana sulle nomine presto farà impazzire la politica: è talmente impastata male che al Tesoro, azionisti di controllo di Viale Mazzini, non sanno neanche se il Cda sarà di 7 o 8 membri.

Lo scenario: commissione di Vigilanza inutile, gruppo parlamentare di maggioranza che può far razzia di consiglieri, amministratore delegato indicato dal Tesoro con poteri enormi. Il triennio renziano ha sfigurato Rai3 (-400.000 spettatori di sera) e Rai2 (-245.000) e non aggiornato la rugosa fisionomia di Rai1 (-430.000), esanime per la Domenica In delle sorelle Cristina e Benedetta Parodi. Nell’ elenco dei cinquanta programmi più visti dall’agosto 2015 al marzo 2018, a parte il festival di Sanremo e le partite della Nazionale, troviamo soltanto qualche puntata del Commissario Montalbano e di Don Matteo. Al contrario, la stagione di Gubitosi era più variopinta. Pure l’informazione è sincronizzata agli anni Ottanta: i telegiornali crescono all’unisono di qualche decimale. E Rai 3, dove il nuovo s’ inabissa (Cyrano di Gramellini già chiuso), regge per l’ ostinata presenza delle trasmissioni di servizio pubblico rimaste, Report, Presadiretta, Mezz’ora in più, Chi l’ ha visto?. Inamovibile Porta a Porta di Vespa, e sciorinare lo share non ha senso: Vespa è il talk show per gli eventi politici, di cronaca, di esteri, nonostante l’ 1,4 smarrito. L’ impresa di Viale Mazzini non sarà recuperare il milione di telespettatori che si dirigono altrove in prima serata, ma fermare l’ emorragia di pubblico, persuadere i dubbiosi, attrarre i giovani. Cos’ ha fatto il Cda uscente per il domani? Niente. Mezzi di produzione obsoleti, appalti a iosa, diritti tv modesti, sport zero, eventi mai, quest’ anno i Mondiali su Mediaset, sinergie industriali assenti, raccolta pubblicitaria confusa (e sempre Mediaset gode), versione Internet da medioevo della tecnologia. Disse Renzi un’ ora prima di indicare Campo Dall’ Orto: “Costi quel che costi, toglierò la Rai ai partiti. Il mio Pd non metterà mai bocca”. Evidentemente, costava troppo.

Carlo Tecce

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