I freelance e le ferie: una contraddizione in termini

Speciale per Senza Bavaglio
Cronista Furiosa
Roma, 23 agosto
Per i giornalisti freelance, l’estate è insieme un incubo e una paradossale opportunità. un incubo, perché mentre chi è assunto ha le sue tre settimane di ferie sudatissime ma pagate, il collaboratore è pagato solo per i pezzi che fa. E dunque se va in vacanza, guadagna zero. Certo, questo vale per tutti i liberi professionisti, che devono accantonare soldi per l’estate.
Peccato che, per quanto se la passino male anche loro, avvocati, architetti, dentisti percepiscono comunque cifre significative per i loro lavori e quindi per loro fare vacanze è soprattutto, diciamolo, un fatto di organizzazione e di un briciolo di lungmiranza. Per il freelance dei giornali, invece, i soldi incassati sono talmente pochi bastano a malapena a sopravvivere durante l’anno. Figuriamoci per le vacanze.
Ma c’è poi una seconda contraddizione. L’estate in genere è il momento in cui i freelance sono corteggiatissimi dai giornali. Che, appunto, in carenza di organico, chiamano i collaboratori pure i giorni di ferragosto, senza minimamente domandarsi se il freelance, magari, è in vacanza, come potrebbe accadere. Mi è capitato di sentire risposte stupite quando una volta, tempo fa, dissi che per qualche giorno non sarei stata reperibile. “Ma come, tu non lavori anche in vacanza?”, mi chiese un interno. E la verità è che sì, ho sempre lavorato anche in vacanza ma era comunque bizzarro che il redattore si stupisse.
Ma appunto, dicevo. L’estate è il momento in cui il freelance può conquistare spazi, riuscire ad arrivare a pagine ambite e mai raggiunte. In effetti, in estate sembra di vivere in un momento di pacchia, senza l’ansia di non essere chiamati, dimenticati, relegati all’ultimo né quella di sentirsi dire che “non ci sono spazi”. E così, per un mese e mezzo almeno, il freelance – un po’ per guadagnare, un po’ per approfittare degli spazi – scrive di tutto, divertendosi ma pagando comunque un prezzo. Non solo quello di fare vacanze a metà, ma soprattutto quello di un scontro sistematico con la sua famiglia, che non capisce perché egli debba lavorare in vacanza.
Come freelance ho rovinato molte giornate, anzi ormai settimane se non mesi, estive ai miei familiari. Mi sono portata il computer ovunque, gite in barca piuttosto che in cima alle vette. Mi sono ritrovata la mattina a metterlo di nascosto nello zaino, con i panini del picnic, nel terrore di essere vista, perché era possibile essere chiamata in qualunque momento. E davvero ho scritto ovunque, nei rifugi, fuori dai musei, rubando spazi nella giornata di vacanze per rispettare la consegna.
Ammetto: c’è un aspetto positivo di tutto questo, lavorare in realtà è spesso per noi giornalisti un diversivo, uno spazio di riflessione all’interno di giornate troppo piene di famiglia. E però restano comunque delle amarezze: il conflitto, ripeto, che comunque ne scaturisce con la famiglia, che bello non è.
La difficoltà di lasciarsi andare e godersi almeno qualche giorno, sempre con l’ansia di poter essere chiamati. Il fatto che comunque, per quanto tu possa scrivere in abbondanza ed essere chiamato e cercato, il periodo delle vacanze finirà e con esso la scarsità degli spazi e la “retrocessione” nella solita zona in cui bisogna lottare per portare un pezzo a casa.
Resta poi comunque un paradosso: perché lavoratori come gli altri, che producono come gli altri non hanno diritto alle vacanze? Perché nessun sindacalista ha mai sollevato il problema, perché nessun editore, anche, si è mai fatta la domanda su come sopravvivano i freelance quando non scrivono? E non solo in vacanza, ma anche quando si ammalano, ad esempio, partoriscono, ad esempio (sì c’è la maternità, ma è ben poca cosa), o devono assistere un familiare. Insomma, è il problema di sempre, l’ingiustizia tra lavoratori di serie A e B, il divario incolmabile che ancora esiste e anzi peggiora.
E che nessuno sembra davvero intenzionato a colmare, con un minimo di welfare che consentirebbe appunto ai freelance se non vere e proprie “ferie” quanto meno la possibilità di evitare continue tensioni familiari, così come l’ansia di comporre giornate spesso assurde tra pezzi da consegnare e seggiovie da prendere. Magari rischiando pure di capire per rispondere al messaggino del capo che convinto che tu sia davanti a un computer in una stanza chiusa – in un sabato di agosto – ti avvisa che la riunione è chiusa e il pezzo ti è stato felicemente assegnato.
Cronista Furiosa
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