La persistente idiozia dell’inflazione come valore in sé

I gessetti di Sylos Labini
Giovanni La Torre
Roma, 15 ottobre 2017

Ancora ci tocca leggere e sentire disquisizioni di commentatori economici secondo le quali quello che manca ancora all’Italia e alla zona euro è la fatidica inflazione al 2%. La cosa viene detta con un’enfasi tale da indurre a far credere che l’inflazione sia un valore di per sé e non un indice di un andamento favorevole dell’economia. E il bello della questione è che la fonte principale di questo equivoco è la Bce di Mario Draghi, la quale da quasi tre anni si incaponisce a inondare di liquidità il sistema al fine di provocare quella inflazione senza riuscirvi (dopo tre anni è all’1,5%, di cui parte originata dall’aumento dei costi energetici, contro il 2% programmato). L’unica inflazione che sta provocando la politica monetaria di Draghi è quella dei valori mobiliari, cioè dei titoli, con la goduria degli speculatori. Sull’inutilità del Qe di Draghi (quantitative easinguna delle modalità non convenzionali con cui una banca centrale interviene sul sistema finanziario ed economico di un paese N.d.R.) per l’economia reale abbiamo già scritto altre volte e non vogliamo per il momento tornarci, mentre vogliamo riprendere il discorso sull’inflazione come presunto valore in sé.

Precisiamo: un’inflazione moderata (appunto il 2%) è positiva se è indice di una domanda superiore all’offerta che spinge all’insù i prezzi e che allo stesso tempo induce a sua volta l’offerta a crescere per adeguarsi, perché così crescono gli investimenti, l’occupazione, la produzione e il Pil. Detto questo va però aggiunto, per onestà intellettuale, che la cosa non è senza costi per tutti.

Quello che soprattutto viene detto a favore dell’inflazione come valore in sé è quanto segue: l’inflazione alleggerisce il peso del debito perché viene rimborsato con moneta svalutata, e siccome il maggior debitore è lo Stato l’inflazione è un bene per il debito pubblico.

Risposta: l’affermazione non è vera in assoluto perché dipende dalla variazione che subisce il tasso di interesse, il quale è influenzato direttamente dal tasso di inflazione. Quello che si guadagna con la riduzione “reale” in linea capitale del debito si perde con l’aumento degli interessi, e la cosa è tanto più vera in una situazione di forte indicizzazione dei tassi dei titoli.

Inoltre appare evidente che quanto eventualmente guadagnano i debitori lo perdono i creditori, cioè tutti noi che siamo “creditori” non solo verso lo Stato per la sottoscrizione dei titoli pubblici, ma anche verso le banche per i nostri depositi. In pratica l’inflazione è una sorta di imposta patrimoniale sui crediti (i predetti commentatori sono gli stessi che si scandalizzano se qualcuno propone un’imposta patrimoniale alla luce del sole). Andrebbero poi considerati gli effetti dell’inflazione sui percettori di redditi fissi.

In conclusione adottiamo politiche per far crescere la domanda reale di beni e un po’ di inflazione “sana” verrà da sola, ma non nascondiamo gli effetti secondari su chi ne paga il prezzo. Perseguire l’inflazione solo con l’espansione monetaria, senza un corrispondente aumento della domanda reale, rischia solo di creare un bolla che prima o poi esploderà, ma questo tema l’ho già affrontato tante volte.

E comunque non divulghiamo l’idiozia che l’inflazione è un valore in sé.

Giovanni La Torre
latorre.giovanni@libero.it

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