Speciale per Senza Bavaglio
Gaia Giuliani
Roma, 29 febbraio 2020

Con un po’ di ritardo, il 27 febbraio scorso sono stati eletti i rappresentanti dell’Assemblea nazionale per il lavoro autonomo nelle Commissioni contratto e il Coordinatore nazionale della Clan. A margine dell’incontro elettorale è emerso che la Fnsi si sta impegnando nella redazione di un nuovo testo sull’equo compenso. Punto dolentissimo per gli autonomi, ancora sprovvisti di un tariffario dignitoso (il primo documento partorito sul tema è stato cassato dal Tar del Lazio prima, e dal Consiglio di Stato poi). Ancora più dolente che sia stato il governo Monti a legiferare in materia nel 2012, e che a otto anni di distanza la questione sia ancora in fieri.

I motivi del respingimento riguardano essenzialmente la restrizione del campo di applicazione ai soli lavoratori parasubordinati – che i freelance continuino a percepire il succulento centesimo a parola – e l’indecenza delle tariffe proposte, ritenute senz’altro incostituzionali. Si spera che i rilievi sollevati dai due organi questa volta siano tenuti nella debita considerazione. Perché a scorrere il documento incriminato viene da chiedersi come mai si sia glissato sulle punizioni corporali.

Qualche esempio: il compenso minimo per il suddetto parasubordinato, che collabori con un quotidiano, è stabilito in succosi 3000 euro lordi l’anno – sì, l’anno, cioè 250 euro lordi mensili – per un minimo di 144 articoli totali – sì, 144, ovvero una media di 12 al mese – da non meno di 1600 battute (a 1590 non si applica). Superati i quali la retribuzione si abbassa del 60 per cento con una logica inversamente proporzionale del più lavori e meno guadagni. Ma non basta perché tale compenso verrà generosamente ed eccezionalmente versato anche ad altra tipologia di lavoratori (sempre autonomi) a condizione che i fortunati riceventi siano così costanti ed economi da resistere non meno di due anni al giogo dell’editore versante. Dimostrando, e qui viene il bello, che tale somma costituisca l’80 per cento e più – sic! – del guadagno complessivo ottenuto nel corso dei dodici mesi. Insomma, praticamente un’esclusiva, oseremmo dire da galera (o mendicità, a seconda).

Dando un’occhiata invece al tariffario 2007 proposto dall’Ordine dei giornalisti si apprende che per lo stesso tipo di prestazione sette anni prima si pensava ad un compenso di 11.760 euro (sempre annuali). Certo, c’è crisi nel mondo dell’editoria, ma il costo della vita col tempo sembra non calare, anzi. Così come i lauti guadagni percepiti ad esempio dall’ingegner Laura Cioli, ex amministratore delegato di Rcs e successivamente del gruppo GEDI, che nell’arco di due anni si è portata a casa, e solo di buonuscita, quasi quattro milioni di euro. Sì, c’è senz’altro grande crisi, soprattutto redistributiva.

Negli ultimi dieci anni poi i circa mille prepensionamenti finanziati in parte dallo Stato, e quindi inevitabilmente ricaduti sulle casse dell’Inpgi, sono andati a favore del sopracitato gruppo GEDI, del gruppo Caltagirone (vedi Francesco Gaetano, considerato l’uomo più liquido d’Italia) e, naturalmente, di Rcs. Prontissima quest’ultima a chiederne recentemente di nuovi pur essendo in attivo. Qualcosa non torna, cara Fieg.

Anche nel nostro istituto di previdenza, perché seppure i conti dell’Inpgi2 navighino in buone acque, per farli tornare ancora meglio da quest’anno la rivalsa è raddoppiata passando dal 2 al 4 per cento, con il contributo soggettivo che è salito dal 10 al 12 per cento per i redditi fino a 24mila euro. Aumentando fino al 14 per cento per quelli superiori, “tassabili” però solo fino ad un massimo di 104mila euro. Superata quella soglia infatti il prelievo si ferma. Saranno sicuramente pochi eletti ad intascare di più, ma perché esentare quel simpatico plus di guadagni dal gruppo? A domanda la gestione separata risponde di allinearsi con i parametri adottati dall’Inps che però, a differenza dell’Inpgi, segue il sistema contributivo dal lontano 1995 (anno della riforma Dini), cui l’Inpgi si è adeguato solo nel 2016 (fino a quella data valeva ancora il retributivo) erogando così pensioni più alte.

Tornando alla rivalsa, sembrerebbe che Valter Mainetti, proprietario de Il Foglio, non sia aduso a versarla (nonostante l’obbligo in questo senso per gli editori) ai giornalisti freelance privi di partita Iva. Usiamo il condizionale e siamo senz’altro pronti a correggere, ma così risulterebbe da alcune segnalazioni.

Vale la pena ricordare che la testata in questione per anni ha beneficiato di contributi pubblici milionari. E che sempre Mainetti è anche proprietario di Sorgente SGR (società di gestione e risparmio) ancora sotto commissariamento da parte di Bankitalia per “gravi violazioni normative e irregolarità nell’amministrazione” come riporta la stessa società sul suo sito. Perché ci interessa? Perché Sorgente, grazie al comparto Michelangelo Due, gestisce parte del patrimonio immobiliare proprio di quell’Inpgi a cui sembrerebbe non versare il sudato 4 per cento dei lavoratori autonomi. Se così fosse, sarebbe un bizzarro paradosso non credete?

E rimanendo in tema di fondi e società di gestione – resistete, abbiamo quasi finito – lo scorso anno l’Inpgi2 ha emanato un totale di tre bandi per investire dai 30 ai 35 milioni di euro (ma solo per quanto riguarda i primi due, per il terzo non viene specificata la somma) in FIA, ovvero fondi di investimento alternativo.

Di cosa si tratta? Di fondi scollegati dal mercato azionario ritenuti generalmente di rischio medio/alto. Per questo possono riservare ritorni economici ingenti come talvolta la mancata restituzione del capitale versato (si legga ad esempio l’avvertenza contenuta nel riquadro in grigio di questa società). Insomma la volatilità è alta, la durata degli investimenti piuttosto lunga e i costi di gestione più consistenti della media.

Perché, in cosa si investe? Nel caso dell’Inpgi2, 10 milioni in FIA di Venture e Growth capital, ovvero start up o piccole medie imprese in fase embrionale cui le banche difficilmente concedono credito. Per il rischio elevato che possano fallire di lì a poco. E altri 20/25 milioni in Private Debt, cioè in strumenti finanziari di debito come ad esempio le cartolarizzazioni immobiliari (ricordate i mutui subprime? Ecco, cose del genere) o in altri pacchetti destinati ad erogare credito alle aziende. Del terzo ed ultimo bando sappiamo poco poiché non viene specificata la cifra da investire ma solo la destinazione: FIA con oggetto infrastrutture (debt o equity).

Non vogliamo però allarmare i colleghi tratteggiando scenari foschi, questi strumenti non conducono necessariamente al default sia chiaro, e c’è chi li considera, nonostante i rischi, piuttosto attraenti per i possibili ricavi.

Rimane però una perplessità: perché pubblicare i bandi senza poi informare su chi siano i vincitori e quali le modalità di investimento?

Corollario: pensiamo di poter parlare a nome di tutti gli autonomi (circa il 70 per cento del totale dei giornalisti italiani) chiedendo per il futuro tre semplici cose: equità, redistribuzione e trasparenza.

Gaia Giuliani
gaiagiu@gmail.com

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